Quel che nelle letterature appare e scompare come delirio passionale, in scena diventa relazione con gli oggetti che ne testimoniano il vissuto, flusso libero di memorie e attaccamenti. César Brie, forte di un’emigrazione provata e scelta come racconto periodico, snocciola i dettagli del sentimento che lega ai luoghi e alle carnalità secondo le pieghe più riposte e aspre, dove è tuttavia sempre possibile rinvenire sprazzi di comicità.
La trama di un morto presente in scena come abito vuoto di cui Brie si riveste, non accoglie soltanto verità più o meno universali sulla maturazione di spirito e pulsioni, ma soprattutto l’incatenamento a una società che costringe a convenzioni e ideologie mal riposte, contrarie al candore di chi ama in solitaria ritrosia.
La lievità di Brie è una poetica visionaria capace di entrare nel sangue dello spettatore nel momento in cui evita di porsi a confronto con un maestro, un autore inarrivabile e si aggira più sicuro nel canto della propria terra sudamericana, nell’allestimento di un altare funebre in assenza di chi compiange il morto. Quel vuoto di uomini e donne non si avverte, ma all’opposto si popola di un’immagine riflessa nel volto di oggi e di un bambino cresciuto a iniezioni di petto gonfio e amplessi senza anima. Lo stesso pupazzo di pasta di pane impiccato tra le mani del narratore di sé, laddove movenze goffe e marionettistiche da innamorato non corrisposto e preda dello strazio gridano un’esclusione.
O un’ingenuità, appunto, che non ha attinenza con la fiera delle vanità politiche o la parata di famigliari pronti a isolare la creatura aggrappata all’amore impossibile, abbarbicata all’isola di un naufragio già scritto. Il volto del morto prossimo al forno crematorio indossa i propri panni dentro una scena descritta anche de due candele conficcate in scarpe che hanno fatto molta strada e, nell’oscillazione delle fiammelle, incorniciano il quadrato della sua voce con la veridicità dell’esporsi a passione e tormento.
Certo è che, se il cerchio di questa storia ha un inizio e una fine facilmente intuibili, è perché nella drammaturgia di Brie non esistono sotterfugi, a parte, meccanismi di mascheramento, colpi di scena o deus ex machina, ma il dichiarato è un manifesto e una condizione attorale prima ancora che di scritture. Brie passa attraverso microazioni, muove sagome, occhi, getta semi nel momento in cui ne è previsto l’atto e, se i rischi sono autoreferenzialità ed eccesso di semplificazione, il pregio è senz’altro la risposta, con le proprie radici, a un teatro per natura destinato a sdoppiare il mondo e ripubblicarlo in quarta parete.
Così, quel morto che si riconosce bambino e maschio fragile, quella coscienza per cui è diventato sempre più facile “vendere un’enciclopedia Treccani che trasmettere un’idea”, non può far altro che spegnere tutte le candele, riporre gli alcolici, finire la sigaretta e, con una cravatta sghemba sotto la camicia, avviarsi alla cremazione come se stesse inseguendo la fisarmonica di una ballata femminile.
Fino al 9 febbraio 2013 – Teatro Filodrammatici Milano
SOLO GLI INGENUI MUOIONO D’AMORE
Scritto, diretto e interpretato da César Brie
www.teatrofilodrammatici.eu