Una settimana alle elezioni, e anche se non mi aspetto nulla di buono, ho intenzione di scrivere tre articoli sulle riforme più importanti: finanza pubblica, liberalizzazioni, trasparenza, e uno sull’antipolitica.
Le tre riforme fanno la differenza tra perpetuare la stagnazione e il declino e uscirne finalmente fuori, e avendo scritto due dei tre capitoli di finanza pubblica per il Manuale di Riforme dell’IBL, comincio dalla prima.
L’Italia ha una spesa pubblica elevata, concentrata soprattutto sulla spesa previdenziale e quella per interessi.
La spesa previdenziale è una delle più dannose per la crescita: se spendessimo 1% di meno per pensioni e più per investimenti (o meno, in generale), secondo un working paper dell’IMF, il PIL crescerebbe nel lungo termine di oltre il 5%.
Con la stessa percentuale di anziani della Germania, spendiamo circa 4% di PIL in più, 60 miliardi. Il 5% del PIL è speso per pensioni superiori a 2.000€ al mese, e il 2% per pensioni sopra i 3.000€ (sono assegni: nulla impedisce che la stessa persona ne abbia più d’uno). Queste spese sono sproporzionatamente elevate per le pensioni del settore pubblico, che in passato ha goduto di privilegi legali. Tagliare le pensioni non significa quindi tagliare la spesa sociale, ma togliere qualcosa a chi sta relativamente bene per lasciare più risorse (meno contributi previdenziali) a chi produce ricchezza, spesso con contratti di lavoro mal pagati, e massacrati da una fiscalità assassina. Significa liberare risorse per aumentare la competitività, gli investimenti e l’occupazione.
Potrei continuare, ma di spesa ho già parlato a lungo per l’IBL. Mi limito a citare un po’ di esempi bizzarri: la spesa per la politica in Italia è 10-15 miliardi superiore a quella degli altri paesi europei di dimensioni paragonabili, l’Italia ha più ufficiali e sottufficiali che soldati semplici, la spesa per l’istruzione primaria è pressoché tutta per il personale, trasformando la scuola in uno stipendificio, e oltre due punti di PIL di spesa sono per sovvenzioni a imprese, cancellabili in cambio dell’eliminazione dell’IRAP.
Una volta tagliata la spesa, sarà possibile tagliare le tasse: siamo primi in Europa per tasse sul lavoro e per tasse sulle imprese. Il nostro sistema fiscale è particolarmente arzigogolato, costringendo le aziende a sprecare risorse solo per mettersi in condizione di pagare le tasse, e la tassazione è concentrata dove fa più male alla crescita e alla produzione: la tassazione diretta su lavoro e capitale.
Tagliare le tasse significa aumentare la competitività, gli incentivi a lavorare e investire, e migliorare le condizioni finanziarie delle famiglie e delle imprese. Ma per farlo occorre tagliare la spesa, che in buona parte è composta di sprechi e rendite di posizione che con un po’ di coraggio si potrebbero eliminare.
Per poi facilitare il rientro del debito, ci sono centinaia di miliardi di euro di patrimonio con cui finanziare una sua riduzione. Lasciate perdere chi dice che sono settori strategici: che senso ha che Finmeccanica (difesa) produca autobus? Che c’entra l’ENI con la distribuzione di benzina? I settori strategici saranno due o tre: sono l’eccezione, non la regola. Le dismissioni aiuterebbero a ridurre la spesa per interessi e a tagliare le tasse più rapidamente, facendo scendere il rapporto debito-PIL. Rispetto ai tagli di spesa e tasse, non è un aspetto così fondamentale per la finanza pubblica, ma si può fare molto.
Il debito aumenta l’instabilità dell’economia e la pressione fiscale (tramite la spesa per interessi), quindi danneggia la crescita. Una sua riduzione migliorerebbe le condizioni finanziarie di famiglie e imprese, sia aumentando la competitività dell’economia, sia riducendo i rischi sistemici che aumentano il costo del debito, sia riducendo le risorse necessarie per finanziare il moloch pubblico.
Pietro Monsurrò
@pietrom79
DISCLAIMER: sono (per la prima volta nella mia vita) tesserato di un partito, FARE.