Come il 50% degli italiani ho passato il martedì sera a guardare Sanremo. L’altra metà dichiarerà orgogliosamente di non averlo visto e, anzi, di non averlo MAI visto. E ovviamente mentirà.
Ma senza perdere tempo con le trite polemiche del pro o contro, Sanremo è l’appuntamento che tutti aspettano, chi per ascoltare le canzoni, chi per vedere i super-ospiti, chi per criticare. Ogni febbraio si ripete il rito delle canzoni, dei fiori, della scala, dei voti sballati e degli eccellenti esclusi. Insomma, è senza dubbio l’evento mediatico più importante dell’anno, tutti gli anni. Elezioni papali escluse.
Un po’ come il Super Bowl per l’America. Beh, i numeri in termini di ascolti sono nettamente differenti, nel senso che la finale del campionato americano di football calamita circa 10 volte più spettatori che la miglior serata del festival, 111 milioni di tv accese contro un massimo di circa 12 milioni. Entrambe le manifestazioni sono però un punto fermo della storia e della cultura dei due Paesi e per questo motivo ieri mi è subito saltata all’occhio un particolare: la pubblicità.
Quando arriva il Super Bowl la gente attende con ansia l’evento nell’evento. Le più importanti aziende del mondo investono centinaia di milioni di dollari per uno spot da 1 minuto o poco più che, quasi immancabilmente, è impreziosito dalla presenza di una superstar internazionale (con annesso contratto a nove zeri). Un anno intero del lavoro di decine di creativi, tecnici e professionisti condensato in 60 secondi che devono lasciare il pubblico senza parole. Perchè? Perchè degli spot che passano nei break (e soprattutto nell’intervallo) di quella singola partita se ne parlerà per settimane, per mesi, in tutti i talk show, al bar, in palestra, dal verduriere. I forum straboccano di commenti, la gente si accapiglia in rete nel tentativo di eleggere lo spot più bello dell’anno e ormai sono nati siti specializzati che raccolgono, classificano e divulgano non le azioni più belle della storia del football, ma i video pubblicitari! Si tratta di marketing virale, si tratta di soldi.
Ieri sera ho voluto fare un confronto e sapete cosa ho visto? La solita merda. Le aziende italiane NON HANNO INVESTITO un solo euro per creare uno spot ad hoc! Sono stati mandati gli stessi “commercials” che vanno in onda tutti gli altri giorni dell’anno, vecchi di mesi, squallidamente senza inventiva, senza un briciolo di novità. L’unico che mi è parso essere nuovo e realizzato secondo canoni accettabili per questo millennio è stato quello della BNL, per il resto siamo ancora alle simil-televendite anni ’60, alle bonazze famose che si rotolano discinte senza proferire verbo e alle pubblicità di auto senza capo né coda.
È vergognoso. Ed è sintomo di due cose: il Festival non è considerato un buon investimento e i grandi marchi italiani non hanno una strategia di marketing che vada al di là del loro naso.
Per quanto possa essere antiquato, il Festival di Sanremo è un catalizzatore di attenzione da parte della società e dei media. Le aziende pagano migliaia di euro per avere uno spazio da 30 secondi e poi non lo sfruttano! Ci sono 12 milioni di consumatori che sono incollati allo schermo e questi imbecilli di grandi manager replicano semplicemente ciò che la gente ha già visto centinaia di volte, è assurdo! Questo porta a pensare che alle varie dirigenze, in fondo, crisi o non crisi, vada bene così.
Siamo un popolo di pavidi don Abbondi che invece di provare nuove strade, nei periodi di difficoltà preferiscono tenere un basso profilo, fare il compitino e non rischiare mai nulla del proprio.
Guardatevi gli spot degli ultimi Super Bowl. Divertenti, invitanti, auto-ironici, epici, nuovi. Sono dei mini film creati apposta per far parlare di sé.
Questo è il motivo per cui abbiamo perso e perderemo competitività sui mercati internazionali, perchè quando sei al supermercato ti ricordi più facilmente di una marca che ti ha colpito con uno spot fresco e accattivante invece che della solita vecchiaccia che lava le magliette sporche al nipote cerebroleso.
Amo il made in Italy, ma se si ostina a non volersi mettere al passo coi tempi, merita di fallire.