Nel settembre 2011, due studenti di Stanford hanno lanciato Snapchat, un’applicazione disponibile su App Store per chattare inviandosi immagini in tempo reale. La novità è che queste immagini rimangono visibili al ricevente per un lasso di tempo deciso da chi invia la foto, che va da uno a un massimo di 10 secondi, al termine dei quali l’immagine si autodistrugge.
I numeri di Snapchat a oggi sono di oltre 20 milioni di utenti unici e 50 milioni di “fotografie effimere” scambiate ogni giorno. La maggior parte degli utilizzatori di questa applicazione sono ragazzi fra i 13 e i 25 anni di età. In Italia Snapchat non è ancora diventato un fenomeno ma sono certa che ben presto lo sarà.
Non appena Snapchat ha guadagnato popolarità sono state molte le voci a levarsi preoccupate per la sua presunta funzione incentivante nei confronti del sexting. Per molti il fatto che si possa inviare una fotografia destinata a scomparire in pochi secondi avrebbe come unico risultato quello di aumentare lo scambio di immagini a sfondo sessuale.
A me sembra invece che questa sia una visione miope e riduttiva di un fenomeno di queste dimensioni e del suo significato intrinseco, che evidenzia la direzione in cui stiamo andando e la trasformazione del significato stesso dell’etimo di immagine.
Inutile dire che innanzitutto basta fare uno screenshot delle immagini ricevute prima che si autodistruggano per salvarle e restituire loro il significato fotografico cui siamo abituati – l’applicazione infatti non può controllare questa funzione anche se promette di avvisare chi manda la foto nel caso in cui il ricevente ne faccia uno screenshot – ma anche questo non importa, perché credo che il punto sia un altro.
Il punto è la direzione in cui un app del genere spinge il significato stesso dell’immagine, che si volatilizza diventando impermanente come parole pronunciate e non scritte, inaugurando un nuovo uso del linguaggio fotografico perfettamente parallelo a quello parlato. “Verba volant scripta manent”: varrebbe adesso anche per la fotografia con tutto ciò che ne consegue.
In quello che potremo chiamare fotolinguaggio – sempre più universale e pervasivo – le immagini non sono più scattate con attenzione alla composizione, alla luce, non vi è più il desiderio di una bellezza idealizzata ma ci sono “immagini in libertà”, il corrispettivo di parole pronunciate senza pensarci troppo.
I teenagers di oggi, gli utilizzatori più giovani di questa app, hanno conosciuto l’altro, la socialità, in un contesto in cui già esistevano facebook e gli smartphone: siamo sicuri che le generazioni precedenti siano in grado di capire in che modo funzionano i loro cervelli? Come pensano? Questo parlare per immagini modifica effettivamente il cervello e la capacità di leggere le fotografie? Queste nuove immagini diventano forse sempre più simili a quelle effimere mentali?
Quello che noi chiamiamo ipervisualità e iperconnnessione è per i ragazzi di oggi la norma: sono giovani postfotografici in un’era postfotografica, la foto non ha più – solo o prevalentemente – la funzione di ricordo, memoria, il gesto fotografico quotidiano perde sacralità, si allenta la tensione verso la perfezione e l’idealizzazione.
Che aspetto avrà una fotografia che non è fatta per essere conservata?
Di sicuro l’obiettivo principale non sarà quello di fare una “bella” fotografia o, nel caso di un autoritratto, non ci sarà la preoccupazione di inviarne uno in cui pensiamo di essere “venuti bene”. C’è qualcosa di liberatorio nell’idea di un’immagine impermanente: le foto che ci ritraggono e che siamo disposti a pubblicare su facebook o incorniciare ed esporre in bella vista nelle nostre case ci ritraggono solitamente al meglio, mentre se mandassimo una foto a qualcuno con la sicurezza che possa essere vista solo un paio di secondi probabilmente saremmo più disposti a farci vedere in tutta la nostra ordinaria mediocrità: immagini anche brutte ma spontanee, schiette, sincere, immagini per una conversazione spicciola.
Per approfondire, dialogare su temi profondi, resta invece la fotografia “seria”.
Tutte queste rivoluzioni che impatto avranno sulla fotografia di moda e commerciale? Avevo già approfondito nel mio post su Instagram alcuni aspetti della trasformazione della fotografia nella nuova era postfotografica, e anche l’abitudine a scambiarsi immagini effimere con Snapchat mi sembra ridurre commercialmente l’efficacia dell’utilizzo di un’estetica snapshot, innovazione deflagrante nei primi anni ’90, oggi divenuta ordinaria modalità di comunicazione collettiva.
Forse lo scenario futuro più plausibile è nella dilatazione della forbice estetica fra le immagini scambiate sui social networks e nelle diverse chat e quelle utilizzate a scopi commerciali: per catturare l’attenzione ci sarà bisogno di immagini perfette, studiate, patinate, ben composte, insomma più Sølve Sundsbø e meno Terry Richardson?