Nel mirinoIl genio di Jeff Wall in mostra a Milano

Morning Cleaning, Mies van der Rohe Foundation, Barcelona, 1999 lightbox, cm190 x 350 Una mostra davvero imperdibile quella di Jeff Wall al Pac di Milano dal 19 marzo al 9 giugno. Canadese classe 1...

Morning Cleaning, Mies van der Rohe Foundation, Barcelona, 1999

lightbox, cm190 x 350

Una mostra davvero imperdibile quella di Jeff Wall al Pac di Milano dal 19 marzo al 9 giugno.

Canadese classe 1946, Jeff Wall è uno degli artisti più significativi del nostro secolo, e i quarantadue lavori esposti nella mostra di Milano, intitolata Actuality e curata da Francesco Bonami, offrono un panorama approfondito sul percorso dell’artista.

Wall forse più di chiunque altro – e sopratutto prima di chiunque altro – ha fatto un uso anticonvenzionale della fotografia, introducendola a pieno titolo nel mondo dell’arte.

In front of a nightclub, 2006 – stampa su carta, cm 182 x 224

Con le parole di Bonami “Wall affronta la fotografia in modo completamente diverso da qualsiasi altro artista o fotografo, decide di costruire le sue immagini fotografiche come si costruisce un quadro. È il primo degli artisti contemporanei che useranno la fotografia per capire che il mezzo a loro disposizione ha un futuro nella storia dell’estetica solo se si metterà a confronto con la pittura. Ma il confronto che Wall sceglie non è con i propri coetanei ma con i maestri della pittura moderna, Delacroix e in particolare Manet”.

Per capire i lavori di Jeff Wall andando oltre il loro indiscusso impatto estetico credo sia necessario sapere che Wall non è solo un artista, ma è anche un professore e un fine intellettuale che ha scritto diversi saggi sull’arte.

Picture for Women, 1979 – lightbox, cm 142.5 x 204.5

Ogni sua fotografia è in realtà un installazione concettuale che indaga sotto la rilevanza estetica importanti questioni filosofiche ed esistenziali, interrogando la natura stessa del mezzo fotografico.

I lavori per cui Wall è più noto sono gli enormi Lightbox, (il primo è The Destroyed Room del 1978) e cioè fotografie di grande formato montate su enormi lightbox retroilluminati da tubi fluorescenti, una pratica che Wall stesso dice di aver mutuato dai grandi pannelli pubblicitari onnipresenti nei tipici paesaggi americani.

I Lightbox sembrano però allo stesso tempo fare il verso anche ai visori su cui i fotografi mettevano le diapositive per fare editing: quasi un invito a un attenta osservazione, una lente di ingrandimento che suggerisce di non fermarsi alle apparenze. Ed è necessario non fermarsi alle apparenze, perché quelli che a prima vista potrebbero tranquillamente sembrare scatti rubati da scene di ordinaria quotidianità sono al contrario il frutto di ore di lavoro su set ricostruiti meticolosamente, spesso in studio, dove ogni minimo dettaglio è studiato al millimetro.

Insomnia, 1994 – lightbox, cm 172 x 214

“Wall does not take pictures, he makes it”, ed è proprio la ricostruzione di una casualità apparentemente priva di interesse che, come un ready-made fotografico, trasfigura il reale caricandolo di significati.

Wall, il cui processo creativo è un vero e proprio statement volto a decostruire la natura stessa del mezzo fotografico, ama giocare sull’ambiguità di fondo che accomuna tutti i suoi scatti, come nel caso di Ivan Sayers, 2009, in cui il conflitto di epoche ci costringe a prendere atto della struttura complessa di ogni sua immagine, o come in Mimic, 1982, dove non è chiaro se il gesto di uno dei tre soggetti presenti nell’immagine sia del tutto casuale o frutto di pregiudizi razziali.

Mimic, 1982 – lightbox, cm 198 x 229

Oltre ai chiari riferimenti alla letteratura e all’arte – sopratutto Courbet, Manet, Velasquez, Delacroix – i lavori di Wall sono ispirati moltissimo anche dall’osservazione di quanto accade attorno a lui; proprio in riferimento a ciò Wall non prende mai “appunti fotografici”, non fotografa quello che accade mentre accade, ma preferisce alle tracce tangibili della realtà circostante e alla poetica del “cogliere l’attimo” la decisione estetica del lasciar sedimentare stralci di quotidianità nella sua memoria, per poter poi inscenare una ricostruzione tesa a rappresentare artisticamente l’estemporaneità.

Ivan Sayers, 2009 – stampa su carta, cm 182 x 224

Un’estemporaneità che è un collage di diversi ricordi assemblati e rappresentati in modo tale da creare un dialogo con le opere dei maestri della pittura moderna, di cui ricrea composizione e pesi, come nel caso appunto del suo primo Lightbox The Destroyed Room del 1978, ispirato al dipinto del 1827 di Eugène Delacroix La morte di Sardanapalus.

Già nella prima opera di Wall è presente tutta la sua complessità. L’idea di The Destroyed Room nasce dagli allestimenti delle vetrine commerciali. Nella costruzione del set Wall vuole porre enfasi sul fatto che non si tratta di uno spazio reale: nessuno abita lì, non si tratta neppure di un vero negozio e il fatto che sia solo un set si può facilmente dedurre dalla porta sulla sinistra e dalla finestra sulla destra, che lasciano volutamente intravedere spazi vuoti.

The Destroyed Room, 1978 – lightbox, cm 159 x 234

The Destroyed Room, oltre a riferirsi a Delacroix sembra essere una riflessione sull’oggetto d’arte che diventa oggetto commerciale. A sostegno di questo concetto Wall ha esposto il suo “disordine costruito” nella vetrina di una galleria sulla strada, come se fosse un negozio.

Un’altra caratteristica nella direzione di un utilizzo contro natura della fotografia da parte di Wall è la produzione di immagini – spesso in esemplari singoli – che diventano oggetti “originali” non più infinitamente riproducibili, che possidono l’aura propria dei dipinti e possono essere visti in unico posto in un unico tempo.

After ‘Invisible Man’ by Ralph Ellison, the Prologue 1999–2000

lightbox, cm 174 x 250.8

Wall è uno dei miei artisti preferiti, ci sono alcuni suoi lavori che potrei osservare per ore – ad esempio la poeticissima After ‘Invisible Man’ by Ralph Ellison, the Prologue 1999–2000, un’immagine ispirata al romanzo di Ellison la cui realizzazione ha richiesto mesi di lavoro e di cui Wall, in un’intervista a Melissa Denes del The Guardian, dice “Writers have it very easy, […] they have the pleasure of imagining these scenes. Working on that picture, I really learned about what Ellison’s 1,369 lightbulbs means. You can only have a few on at a time. I got to know that room as well as the Invisible Man would have, had he existed.”

After ‘Spring Snow’, by Yukio Mishima, chapter 34, 2000-2005 – stampa su carta, cm 63 x 74

Ai Lightbox, dagli anni ’90 Wall ha affiancato la produzione di stampe sempre di grande formato in bianco e nero, opache e non su supporto luminoso, in cui sono evidenti i riferimenti all’attualità e alla storia della fotografia documentaria. A proposito di queste stampe nel testo del catalogo della mostra edito da Electa, Bonami scrive: “Se i classici Lightbox proiettavano l’immagine verso lo spettatore, richiamando il cinema o il teatro, le opere di Wall che non usano il supporto luminoso, stampe fotografiche anziché trasparencies, assorbono l’immagine e anziché venirci incontro ci chiedono di superare noi la soglia, entrandoci dentro con il nostro sguardo. Se i lightbox rivelano qualcosa, le stampe fotografiche lo nascondono. Il rapporto con lo sguardo dello spettatore diventa meno immediato. Se prima trovavamo adesso cerchiamo. Se prima vedevamo adesso immaginiamo, riflettiamo, studiamo, scrutiamo ciò che ci sta davanti.”

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