Nel suo “The Big Four” Agatha Christie affida al commissario Poirot il compito di sventare un vero e proprio complotto internazionale ordito da una oscura centrale di sovversione che ha sede a Pechino e che utilizza per i suoi scopi armi sofisticate. Ci siamo: ancora alla fine degli anni Venti la celebre giallista ripropone, in veste forse più elegante, un tema ormai classico nell’Occidente: quello del “pericolo giallo”. Tema persistente che, assumendo forme diverse, è arrivato fino ai nostri giorni e ha ritrovato una nuova fiammata d’ attualità con l’emergere della Cina popolare a potenza globale. La rinnovata “minaccia gialla” non è più quella della sovversione comunista internazionale – delle campagne che circondano le città – ma è quella della messa in discussione degli equilibri geo-politici mondiali e della supremazia statunitense.
Le accuse odierne hanno smarrito – anche se non del tutto – l’originario razzismo per privilegiare altri temi come quelli delle pratiche commerciali sleali, del furto di proprietà, della svalutazione della moneta, del ritorno del nazionalismo fino a quella dei cyber attacchi condotti dal territorio cinese contro aziende statunitensi. Dato questo quadro di fondo, non può certo sorprendere che la decisione di aumentare le spese militari nel 2013 alimenti un nuovo allarme. Dia, quindi, ancora più consistenza alla paventata minaccia: ora la Cina rappresenta anche un serio pericolo militare per gli equilibri nell’Asia-Pacifico e, di conseguenza, per il mondo intero. Una nuova generazione di scrittori di romanzi “gialli” avrebbe a disposizione un’ampia scelta di materiale. Ma concentriamoci sui numeri perché, sebbene abbiano il difetto di essere poco fantasiosi e ancor meno seducenti, ci aiutano a comprendere meglio le reali minacce alla pace, cercando, al contempo, di inserirli in un quadro più ampio utilizzando – pericolosa arma sovversiva – anche il metodo del confronto. Nel corso della recente riunione dell’Assemblea nazionale del popolo – il parlamento cinese – il premier uscente Wen Jiabao ha dichiarato che quest’anno la spesa militare registrerà una crescita del 10,7% per un totale di circa 91 miliardi di dollari.
Se ci fermassimo qui la conclusione sarebbe facile (e superficiale): la Cina si sta armando sempre più. Ma il nostro viaggio prosegue ben oltre questo primo incrocio (molti non lo farebbero!): l’aumento delle spese militari rappresenta infatti circa l’1,8% del Pil di Pechino che quest’anno dovrebbe segnare un + 7,5% (il 2012 si è concluso con un + 7,8%). Una prima conclusione balza agli occhi: una spesa davvero contenuta da parte di un Paese che da tempo è interessato da una robusta crescita economica. Certo – potrebbero dirci -da da un Partito comunista ci aspetteremmo ben altro che le spese militari! Vero, ma anche la Cina ha diritto di difendere la sua sovranità e il suo modello di sviluppo socio-economico, soprattutto in un contesto di accerchiamento ai suoi danni. Politica di progressivo containment che gli stessi Usa rivendicano. Nel rapporto presentato dal Pentagono al Congresso nel 2011 si potevano leggere dichiarazioni assai chiare come “manterremo una forte presenza militare in Asia per decenni” e la volontà di estendere “la cooperazione militare con Filippine, Thailandia, Vietnam, Malaysia, Pakistan, Indonesia e Oceania”.
E che il Pcc non pensi solo alle spese militari è dimostrato dal fatto che nello stesso tempo è stato annunciato un incremento del 27% della spesa per il welfare, cioè per case popolari, sanità, pensioni e protezione dell’ambiente. Il quadro comincia ad essere un poco diverso: ragionassimo solo coi numeri, lo “yellow peril” avrebbe le pericolose fattezze dell’esportazione dello stato sociale e delle spesa pubblica per il benessere della popolazione. Ed è un quadro opposto a quello in cui si trova nel suo complesso l’Occidente con i pesanti tagli allo stato sociale, la diffusione della povertà e delle disuguaglianze. Vediamo adesso il livello della spesa militare di alcuni Paesi – utilizzando i dati della Banca Mondiale e del Sipri di Stoccolma – per avere così una visuale più ampia: la Gran Bretagna dedica alla difesa circa il 2,6% del Pil, la Francia il 2,3% e l’Italia circa l’1,6%. La Grecia ancora nel 2011 era assestata sul 2,7%. L’India – altra potenza economica alla ribalta – è in sostanza sugli stessi livelli britannici, ma nessuno sembra paventare una “minaccia indiana”. L’Arabia Saudita supera addirittura l’8%: avete mai sentito di un “pericolo saudita”?. Il confronto va fatto con il Paese che più grida alla minaccia militare cinese: gli Stati Uniti del premio Nobel per la pace. Ebbene la spesa militare di Washington è di 534 miliardi di dollari (cinque volte oltre quella di Pechino) che, in rapporto al Pil, rappresentano il 4,8% (nel 2007 l’asticella era ferma al 4%). Siamo, quindi, oltre il 40% della spesa militare mondiale. Una differenza non di poco conto, tanto che secondo l’Istituto per gli Studi strategici di Londra, la Cina potrebbe raggiungere la spesa statunitense solo entro il 2025 a patto di aumentare in media del 15% ogni anno le spese militari.
Inoltre la spesa militare statunitense avviene proprio quando i tagli allo stato sociale si stanno facendo pesanti: ben 85 miliardi nel 2013 che colpiranno soprattutto – come ricorda il Sole24Ore – servizi sociali, progetti di ricerca e programmi educativi per i più poveri. Non male per un Paese che, mentre non intacca in sostanza il suo budget militare, vede in crescita esponenziale il numero dei poveri, giunti alla cifra di 46 milioni – nella fascia compresa tra i 25 e i 34 anni i poveri rappresentano il 45% – secondo le statistiche del Censis Bureau. Tutto questo mentre in Paesi come Cina, India e Brasile – secondo i dati diffusi in questi giorni nello studio “L’ascesa del Sud: il progresso umano in un mondo in evoluzione” del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo – in poco più di vent’anni le persone in condizioni di estrema povertà si sono ridotte dal 43% al 22%. In Cina, in particolare, si è passati dai 250 milioni di poveri del 1978 ai 30 milioni attuali, mentre le spesi militari solo in rare occasioni sono andate oltre il 2% sul Pil in anni di crescita a due cifre.