CineteatroraOltre la tenda, l’io naufraga

Il margine di un capolavoro scenico, e quel che su di esso si rovescia come critica e adattamento, prova anzitutto quanto sia perenne nei tagli d’osservazione. Esistono immagini chiaroscurali sulle...

Il margine di un capolavoro scenico, e quel che su di esso si rovescia come critica e adattamento, prova anzitutto quanto sia perenne nei tagli d’osservazione. Esistono immagini chiaroscurali sulle quali la parola esercita un dominio nel momento in cui possiede i confini di forma e simbolo e sa muoversi oltre le ragnatele di un’età diversa.
La scrittura sul filo del burrone di Tennessee Williams non riassume semplicemente una grandezza risolta più o meno consensualmente in scena, ma un condotto asfittico di umanità, cervelli e identità che sbraitano riducendo gli episodi della vita a un vortice che dilania senza soluzione. E non è soltanto un’evidenza novecentesca, un retaggio del dopoguerra, ma Un tram che si chiama desiderio, come altri copioni, viene alla luce facendo delle ombre sfuggite al chiarore del giorno il trampolino di scommesse registiche verso la rinuncia o la sfida ardita.
Antonio Latella calca i vuoti interni ed espliciti di quella partitura pressoché per voce sola, pur nel coro frammentato e assordante degli abitanti di un fazzoletto di New Orleans. Vi aggiunge l’ironia del sogno americano sfumato nei motivi rock e nelle t-shirt con stampato il volto di Marlon Brando nella versione cinematografica di Kazan. Ma più di tutto penetra il disonore di Blanche Dubois, mentitrice esperta e allo sbando per un declino famigliare che la trascina in casa di sua sorella Stella, colpevole di aver rinunciato a famiglia e agi per sposare un immigrato polacco e violento, Stanley Kowalski.
La casa di New Orleans è una calca di oggetti: ci sono una testata barocca, un lavabo, una vasca, un tavolo e un’asta da microfono per passare le dichiarazioni e gli alterchi più penosi. Oltre la tenda che divide una riservatezza inesistente si alternano amplessi e botte, bagni caldi per tenere a freno i nervi di Blanche e il bisogno di accompagnarsi l’uno all’altro come confessato da Mitch, amico vulnerabile di Stanley. Ogni tavola o angolo in cui le voci e i corpi si contendono riscatti inarrivabili è sormontato da riflettori e fari accecanti, si riproducono rumori e ossessioni come nel cranio di Blanche, dove rimbombano traumi morbosi.
La fortezza fragile di Laura Marinoni, mentre esplora prima candidamente e poi rovinosamente il male di Blanche prossima all’internamento psichiatrico, ricorda la sagoma hopperiana nuda, alienata e immobile alla finestra di un albergo. Quella disperante sequela di ore e scivolamenti nel delirio che del realismo si getta alle spalle tutto, fuorché ciò che appunto maggiormente gli si oppone. Una magia avvinghiata ai simbolismi, contraria ai toni pastello, ma soprattutto ai modi bestiali e alle frasi sgarbate, un alito di bellezza residua e aristocratica di cui i paraluce colorati incorniciano il tremore.
Ogni resistenza impossibile di Blanche e la sua permanenza stratificata nel tormento davvero mirabile di Marinoni fanno di una recitazione frontale il tassello coerente che va verso lo sfaldarsi esiziale dei rapporti. La lente del racconto è la didascalia veloce e in loop di un dottore che si scopre essere – qui in modo forzatamente compiacente, quanto la neve proveniente dal ventre gravido di Stella – l’alter ego di Williams. Dunque è solo chi ha plasmato i caratteri e intagliato le loro urla, chi ha fissato sbandi e ambiguità – cui fa eco il travestimento deciso da Latella per il personaggio di Eunice – può mostrare devozione verso il dramma. Un dottore che è drammaturgo e quarta parete psicanalitica dall’inizio alla fine.
Ma non si tratta di incamminarsi verso una salvezza, piuttosto di agitare amplificazioni dei singhiozzi e delle risate rese vagito dopo la nascita del figlio di Stella e Stanley. Un gancio finale che decreta l’incurabilità delle dipendenze di Blanche da sesso e alcol, ma soprattutto il suo ripiegamento in una non precisata follia su cui fari e riflettori continuano a essere sadicamente puntati, persino durante la violenza subita lottando contro “il polonese”. Quando però la memoria si rintana al buio, il dottore ascolta il canto sommesso della debole che dovrebbe luccicare ed è ignara della gioia di esistere animalesca. Si china allora a proteggerla per carezzarne la mente esausta. E, proprio lì, in mezzo alle bolle di sapone, ai pop corn calpestati come la sorellanza di Stella, dietro alle vanità più nervose, respira forse l’unico credo: «Chiunque lei sia, ho sempre confidato nella gentilezza degli sconosciuti…».

Fino al 24 marzo 2013
Piccolo Teatro Grassi – Milano

Un tram che si chiama desiderio

di Tennessee Williams
traduzione Masolino D’Amico
regia Antonio Latella
asssitente alla regia Brunella Giolivo
scene Annelisa Zaccheria
costumi Fabio Sonnino
luci Robert John Resteghini
suono Franco Visioli
con Laura Marinoni, Vinicio Marchioni,
Elisabetta Valgoi, Giuseppe Lanino,
Annibale Pavone, Rosario Tedesco

produzione ERT – Teatro Stabile di Catania
in collaborazione con StabileMobile Compagnia Antonio Latella