Da qualche settimana si parla, sempre più insistentemente, di “negoziati decisivi” per la normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Priština. Ma nonostante l’ottimismo, un accordo sembra ancora lontanissimo. Quali sono i punti del disaccordo (fondamentalmente, uno soltanto) e perché non si riescono a risolvere.
All’inizio di aprile un nuovo round di negoziati tra Priština e Belgrado, svoltosi a Bruxelles sotto l’egida di Bruxelles e dell’alto commissario per la politica estera e di sicurezza europee, Catherine Ashton, sembrava essere vicinissimo alla risoluzione del contenzioso che divide la Serbia dal Kosovo, da quando il Parlamento del secondo approvò, nel febbraio 2008, una dichiarazione unilaterale di indipendenza.
L’UE chiede a Belgrado di sottoscrivere un patto per la normalizzazione dei rapporti col Kosovo. Una normalizzazione, probabilmente, molto più vicina di quanto non appaia. Belgrado ormai non si fa più illusioni: la provincia è persa, e non può più credibilmente avocarla a sé. Al tempo stesso, la classe politica serba (al di là di differenze che sembrano, tuttavia, appartenere più al campo della retorica che a quello della politica) pare aver accettato di percorrere la strada dell’integrazione europea.
L’accordo sembra essere “solo” questione di tempo. Molti giornali dell’ex – Jugoslavia, nel corso delle ultime settimane, hanno rilasciato indiscrezioni che davano come imminente addirittura la decisione della Serbia di riconoscere il Kosovo. In realtà, sarebbe più corretto dire che ad essere realmente vicino è l’istante in cui il vero nodo gordiano della questione deve essere sciolto.
Il problema per eccellenza, quando si parla dell’attitudine che Belgrado ha nei confronti della provincia secessionista, è l’enclave a nord del Kosovo. La composizione etnica di quest’ultimo è piuttosto chiara (oltre il 90% è composto da Albanesi, anche se cifre attendibili non esistono, avendo i serbi boicottato l’ultimo censimento organizzato nel 2011 da Priština). Ma nel nord, e più precisamente nelle municipalità di Leposavić, Zvečan, Zubin Potok e Mitrovica Nord, la maggioranza della popolazione è serba.
Il punto fondamentale è, per la Serbia, assicurare la sicurezza dei propri cittadini che – di fatto – finirebbero per vivere in uno stato dominato etnicamente dagli albanesi. Ivica Dačić, premier serbo, ha un’idea fissa in testa: garantire ai Serbi un’unione amministrativa dotata di ampie autonomie, sul modello della “Republika Srpska” di Bosnia Erzegovina. Un progetto che, come ricorda Gerard Gallucci su Trans Conflict, non violerebbe né il piano Ahtisaari né i documenti su cui si basa, per il momento, lo status internazionale del Kosovo. Da parte sua, Priština di un tale accordo non vuole assolutamente sentire parlare, in quanto finirebbe per minare la propria sovranità.
C’è da dire che la Serbia, presumibilmente, sarebbe pure disposta a cedere il controllo dell’enclave. Quello che chiede in cambio, però, è l’indicazione chiara di una data per l’avvio dei negoziati di adesione all’UE: concessione che Bruxelles al momento non sembra disposta a fare. I serbi del nord del Kosovo sono consapevoli del rischio che corrono. La loro posizione è semplicemente quella di un “ostaggio politico” che Belgrado sta usando per accrescere il proprio peso negoziale. La madrepatria potrebbe voltar loro le spalle da un momento all’altro, ed essi lo sanno. Per questo tra di loro c’è anche chi si prepara, autonomamente, a creare un’assemblea del nord della provincia di Kosovo e Metohija.