WildItaly.netL’evoluzione del Gattopardo

In momenti concitati come quelli vissuti a partire dalle ultime elezioni, per comprendere cosa sta accadendo è sempre utile aver presente un riepilogo della situazione venutasi a creare. Punto di p...

In momenti concitati come quelli vissuti a partire dalle ultime elezioni, per comprendere cosa sta accadendo è sempre utile aver presente un riepilogo della situazione venutasi a creare.

Punto di partenza è obbligatoriamente il novembre 2011, mese delle dimissioni di Berlusconi e della successione del governo Monti, protetta e orchestrata direttamente da Napolitano, caratterizzata dalla fiducia più ampia di sempre (all’opposizione si trovava solo la Lega, seguita dopo qualche tempo dall’Idv) e conclusasi nel dicembre 2012 dopo l’abbandono della «strana maggioranza» da parte del Pdl, che apriva l’ultima campagna elettorale sancendo il ritorno della politica: Berlusconi, nuovamente alleato con la Lega, attaccava il governo di Monti e le sue misure, ricordando nel contempo che il Pd è pieno di comunisti; Bersani criticava soprattutto il populismo di Grillo, promettendo di allearsi con Monti anche in caso di vittoria, nonostante le critiche riservate alla sua politica economica, alla base del programma del suo alleato, Sel di Vendola. Assorbendo l’Udc e Fli in Scelta civica, Monti cominciava la sua «salita» in politica per portare avanti il suo programma, difendendosi dagli attacchi dei partiti di destra e sinistra e ricordando di essere stato sostenuto fino all’altro giorno dagli stessi; il Movimento 5 Stelle, infine, si prefiggeva l’obiettivo di distruggere il medesimo sistema che ha sostenuto i tecnici dimissionari.

Si arriva così al risultato delle elezioni del 24-25 febbraio, tutt’altro che chiaro: il Pd, solo grazie al premio di maggioranza del Porcellum, ottiene la maggioranza alla Camera, mentre al Senato deve cercare altri voti. Ricevuto il pre-incarico da Napolitano il 22 marzo, Bersani per un mese corteggia più o meno convincentemente il Movimento 5 Stelle, ricevendo però solo porte in faccia, che certificano lo stallo. Per provare a sbloccare la situazione, il 30 marzo Napolitano nomina i cosiddetti «dieci saggi» per stilare una lista delle emergenze cui bisognerebbe dare una risposta politica attraverso un governo. Il documento, consegnato il 12 aprile, viene lasciato da Napolitano al suo successore, se stesso, rieletto – caso unico nella storia della repubblicana – l’altro ieri alla sesta votazione.

La coincidenza tra i partiti che hanno sostenuto questa rielezione (Lega, Pdl, Scelta Civica e Pd) e quelli cui appartiene parte dei saggi ha fatto pensare ai più al preludio ad un governo di larghe intese, da sempre sostenute da Napolitano, rievocate chiaramente anche oggi, nel discorso del nuovo insediamento: i risultati delle elezioni «indicano tassativamente la necessità di intese tra forze diverse per far nascere e per far vivere un governo oggi in Italia, non trascurando, su un altro piano, la esigenza di intese più ampie, e cioè anche tra maggioranza e opposizione, per dare soluzioni condivise a problemi di comune responsabilità istituzionale».

Considerato il punto di partenza e la conclusione di questo excursus, s’impone evidentemente una domanda: a cosa è servito andare a votare? Al di là del caso rappresentato dai grillini, se nascesse un governissimo sotto l’egida di Napolitano non si capirebbe infatti cosa sarebbe mutato rispetto a un anno e mezzo fa: che fine avrebbe fatto la necessità di un rinnovamento, garantita a parole da tutti i partiti?

Dietro al profilarsi della conservazione dello status quo potrebbe essere individuata una semplice coincidenza; le modalità che hanno portato all’elezione della carica più alta della Nazione, però, non permettono di sostenere questa ipotesi. Qui infatti vien da pensare solamente di essere ben oltre al Gattopardo: i latifondisti della Repubblica italiana non hanno più dovuto fingere di cambiare tutto per mantenere la situazione a loro più gradita, se non unicamente durante la campagna elettorale. Come in diversi altri casi, anche questa volta l’agone partitocratico si è unito nelle sue singole componenti attraverso taciti accordi, in barba alle promesse e alle schermaglie elettorali; rispetto al passato, però, non ha neanche provato a far credere di passare ad una nuova Repubblica (la terza) né – al di là di Scelta civica – ha finto di creare nuove entità: questa volta i partiti hanno attuato la loro strategia alla luce del sole.

Rispetto a tutto questo, un dato appare sempre più evidente: il lampante e rivendicato spregio del popolo italiano, sempre blandito e ipnotizzato in campagna elettorale con promesse puntualmente disattese, ormai ignaro – soprattutto per colpa dei media, sempre a sostegno di questo sistema nella loro larga maggioranza– delle differenze tra la Repubblica parlamentare certificata dalla Costituzione e una particolarissima Repubblica presidenziale, quella in cui il Capo dello Stato non garantisce più i cittadini, bensì i partiti, le celebri «macchine di potere e di clientela» di Enrico Berlinguer. Lo ha dichiarato implicitamente lo stesso Napolitano oggi, escludendo di fatto l’ipotesi di nuove elezioni con la condanna all’oblio del termine «inciucio»: «Il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche. O forse tutto questo è più concretamente il riflesso di un paio di decenni di contrapposizione – fino allo smarrimento dell’idea stessa di convivenza civile – come non mai faziosa e aggressiva, di totale incomunicabilità tra schieramenti politici concorrenti».

Ingranando la retromarcia, Grillo l’altro ieri ha detto che non siamo proprio di fronte ad un colpo di Stato, quanto piuttosto ad un «golpettino istituzionale furbo»; a mente un po’ più fredda, considerando l’ormai totale esautorazione del potere del popolo, pare sempre più evidente come, in generale, i diminutivi sia meglio lasciarli a casa.

ALESSANDRO BAMPA
per Wilditaly.net