Nei giorni scorsi ho avuto il piacere di essere invitato a un evento tanto raro quanto prezioso: l’Associazione Museo Nazionale del Cinema e Videcommunity hanno organizzato a Torino una doppia proiezione all’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno.
L’occasione era la presentazione di due lavori legati strettamente al mondo del carcere, uno in particolare a “quel” carcere specifico: il documentario “Art.27” di Laura Fazzini, Elia Agosti e Luca Gaddini e il mediometraggio di finzione “L’ultima notte” di Mattia Temponi.
Due lavori profondamente diversi tra loro: il primo è un viaggio doveroso e importante all’interno di quattro istituti penitenziari italiani (Milano Bollate, Venezia Giudecca, Roma Rebibbia e Palermo Ucciardone) per definire un quadro della situazione italiana relativamente all’articolo 27 della Costituzione Italiana, e a quel comma 3 che definisce il diritto a un percorso di reinserimento per ogni carcerato.
Una realtà troppo poco raccontata e troppo spesso dimenticata: troppo spesso i carcerati – che già devono affrontare numerose altre problematiche, prima tra tutte quella del sovraffollamento – vengono lasciati a loro stessi (per mancanza di fondi o per miopia delle istituzioni) e inevitabilmente il loro destino, una volta usciti, diventa molto più complicato. Chi ha trovato lavoro in un piccolo orto interno al carcere, o in un laboratorio tessile, o in una lavanderia, ha invece (spesso) ritrovato sé stesso e il proprio posto nel mondo. “Ci siamo accorti – hanno detto gli autori – che molte delle persone che abbiamo visto in carcere erano come noi, gente “normale” che ha fatto un errore: può succedere a tutti, ed è quindi dovere di tutti fare in modo che il sistema penitenziario diventi più “umano”, in tutti i sensi”.
“L’ultima notte” di Mattia Temponi è invece un progetto decisamente particolare, voluto da alcuni giovani membri della Società Filosofica Italiana per – parole loro – “portare la filosofia nei luoghi in cui è assente”. L’ultima notte del titolo è quella di Socrate alla vigilia della sua condanna a morte, combattuto tra la possibilità di fuggire negando però i propri principi o restare e andare incontro a morte certa. Ambientato dentro il carcere e realizzato grazie agli stessi detenuti (i ruoli principali sono affidati ad attori professionisti, ma i ruoli minori e buona parte della troupe tecnica sono stati reperiti “in loco”), il mediometraggio riesce nel suo intento e regala anche alcuni momenti molto riusciti.
Il carcere – e i carcerati soprattutto – non sono un mondo alieno e “altro” rispetto alla società civile, anzi. Il cinema italiano (come sottolineato qualche settimana fa sempre su queste pagine) sembra essere, almeno in questo caso, qualche passo avanti rispetto al resto del paese nel considerarlo soggetto attivo e vitale, grazie a numerosi e apprezzati lavori che hanno saputo parlare del carcere, far parlare i carcerati, nascere dentro le carceri o entrarvi dentro, e restituendo al pubblico un’esperienza umana e sociale da non trascurare.