Dopo aver scontato 22 anni di carcere per l’omicidio dei genitori, Pietro Maso è tornato ad essere un uomo libero. Dei suoi 41 anni, più della metà li ha passati in carcere. Ottenuta la semilibertà nel 2008 si è sposato (tra le polemiche) ed ha trovato un lavoro (terminato ora con la scarcerazione). Secondo il giudice che ha firmato il fine pena, Roberta Cossia, Maso avrebbe compiuto un suo percorso di pentimento e riabilitazione.
Ora dimentichiamolo. Non approfittiamo di questo evento per riportare alla luce le cronache di vent’anni fa. È uno spasmo delle viscere quello che, di fronte all’orrore, chiede vendetta e non perdona mai. Ma va controllato e, il più possibile, evitato. Pietro Maso ha pagato a caro prezzo i suoi errori. Ora gli deve essere lasciata la possibilità di costruirsi una vita anonima, serena, nuova. Non incateniamolo al suo orribile passato.
Nell’epoca dei mass media, di internet e dei social network (“Pietro Maso” è già trend su Twitter), il “diritto all’oblio”, il diritto cioè a che i propri trascorsi criminali scolorino nel tempo una volta scontata la pena, non può essere garantito solo dall’autorità giudiziaria. Né dalla sola deontologia dei professionisti dell’informazione. Serve una coscienza diffusa – ad oggi completamente inesistente o quasi – del problema: la funzione della pena è rieducare, una pena stigmatizzante ed eterna come il biasimo sociale ottiene l’effetto opposto. Se non vogliamo che i criminali restino criminali per sempre (aumentandone quindi il numero complessivo), diventa responsabilità dell’intera società capire che nel calcolo costi-benefici non può prevalere un immortale sentimento di vendetta.