AmicilegaliRedditometro: la “presunzione” dello Stato

La scorsa Vigilia di Natale, mentre gli ignari contribuenti decidevano il menù del "cenone", il sempre operativo e solerte Ministero dell’Economia e delle Finanze emanava il D.M. che individuava “i...

La scorsa Vigilia di Natale, mentre gli ignari contribuenti decidevano il menù del “cenone”, il sempre operativo e solerte Ministero dell’Economia e delle Finanze emanava il D.M. che individuava “il contenuto induttivo degli elementi indicativi di capacità contributiva”, ossia i criteri che avrebbero ridelineato il temuto strumento di accertamento sommario del Fisco, meglio noto come “nuovo redditometro”, già previsto dall’art. 22 del D.L. n. 78/2012, ed entrato in vigore il 4 gennaio di quest’anno.

http://www.federterziario.it/files/files/Decreto_24_dicembre_2012.pdf

La rubrica del provvedimento ministeriale in questione, non cercando nemmeno di dissimulare l’assoluta arbitrarietà dichiaratamente messa nelle mani della Pubblica Amministrazione (“contenuto induttivo di elementi indicativi” rende perfettamente l’idea del livello di certezza a cui vorrebbe tendere il Fisco nella ricostruzione reddituale del cittadino), già anticipa, profeticamente e con buona approssimazione, il numero di problemi che scaturiranno dalla neo-nata disciplina.

Infatti, il nostro legislatore, con la competenza e la lungimiranza che negli ultimi tempi hanno sempre contraddistinto il suo operato, nella nuova formulazione è riuscito, con rara pervicacia, a portarsi appresso i medesimi problemi interpretativi che hanno distinto la vecchia versione del medesimo istituto: primo fra tutti, il valore giuridico attribuito alle presunzioni a cui la P.A. può fare ricorso per l’accertamento dei redditi.

Nella vigenza della vecchia disciplina del redditometro, infatti, la più nota querelle giurisprudenziale ha visto contrapporsi l’orientamento che accordava agli elementi indicativi della capacità contributiva natura di “presunzione legale relativa” a quello che invece ne limitava la portata, derubricandoli a “presunzione semplice”.
Sebbene ai “non addetti ai lavori” la differenza tra le due interpretazioni possa sembrare cavillosa speculazione tra legulei, essa, invece, durante il processo tributario è distinzione di non poco momento per il contribuente “vittima” dell’accertamento. Mentre la natura di presunzione legale, infatti, consente alla P.A. di liberarsi dall’onere della prova circa la reale portata dell’accertamento sintetico effettuato, ponendo “a carico del contribuente l’onere di dimostrare che il reddito presunto sulla base del redditometro non esiste o esiste in maniera inferiore” (come sostenuto dall’ordinanza n. 18604/2012 della Suprema Corte), la natura di “presunzione semplice” onera invece la P.A., che vorrebbe tassare il contribuente sulla scorta del maggior reddito da essa presunto, di ulteriori “verifiche di fatto circostanziate e documentate circa la effettiva e reale capacità reddituale del soggetto verificato” (come statuito dalla C.T.P. di Sondrio con la pronuncia del 24 febbraio 2011, riprendendo una condivisa opinione formatasi in seno alla Corte di cassazione nel 2009).

Ebbene, nonostante l’ultima pronuncia della Suprema Corte in quest’ultima direzione sia pervenuta il 20 dicembre 2012, ossia quattro giorni prima dell’emanato decreto, il legislatore, completamente “impermeabile” a qualsiasi influenza esterna ad esso, ha mantenuto la disciplina nel medesimo alone di ambiguità che l’ha sempre caratterizzata.
E così, sulla scorta della normativa, così come da ultimo formulata, c’è chi (non infondatamente) ritiene (e teme) che l’Amministrazione Finanziaria, ricorrendo ai tristemente famosi “studi ISTAT” o ad altri studi su base socio-economica, avrà il potere di attribuire al soggetto “accertato” qualunque tipo di spesa, comprese quelle mai sostenute, onerando il contribuente della c.d. probatio diabolica, ossia della prova negativa attinente all’inesistenza dei redditi presunti dalla P.A. (l’utilizzo della locuzione latina sarà di immediata comprensione laddove si ponga mente alla circostanza che il soggetto dovrà dimostrare non l’esistenza, bensì l’inesistenza di un reddito induttivamente attribuitogli).

Al cittadino non resterà dunque che continuare a sperare che i giudici tributari perseguano, con sempre maggiore convinzione, il condivisibile intento di contenere entro limiti accettabili la “presunzione” statale.

M.M.

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