Out among the EnglishAntipodi (tennis, letteratura e Roger Federer)

A me questa cosa di Rafael Nadal ottavo re di Roma non è che vada proprio a genio, come non mi va a genio il fatto di non aver essere scendere all'Urbe per seguire almeno una piccola parte degli i...

A me questa cosa di Rafael Nadal ottavo re di Roma non è che vada proprio a genio, come non mi va a genio il fatto di non aver essere scendere all’Urbe per seguire almeno una piccola parte degli internazionali di tennis. Io sono per Federer, per la sua classe, per quel distacco così svizzero che lo spinge a non aggredire il rimbalzo ma ad accompagnarlo verso la rete. Nadal è un debosciato, un esagitato, un esaltato. Fa un uso sconsiderato del top-spin, senza comprenderne l’essenza, è tutta potenza e poca pratica, e poi grida come un assatanato. Trovo decisamente improprio il fatto di paragonarlo a John McEnroe, come trovo improprio il parallelismo Federer / Borg. Tra lo spagnolo e l’americano-ammazza-giudici c’è un abisso, McEnroe non avrebbe mai portato una bandana. Fine dello sfogo, chiedo scusa.

Quello tra tennis e letteratura è un rapporto tanto antico quanto ambiguo, sarà per il silenzio sui campi, ricercata forma di concentrazione agonistica che ricorda un po’ la necessita dell’assoluta quiete degli scrittori eremiti. Sarà per l’armonia del movimento, sarà per il calcolo sballato del punteggio, sarà perché il tennis è uno sport elitario e la letteratura – non di questi tempi, purtroppo – è una pratica d’élite. Sarà semplicemente perché il tennis è bellissimo e chiunque abbia un po’ di senso critico può arrivare a comprenderlo. Io credo che sia per la solitudine del tennista e la solitudine dello scrittore, che vanno di pari passo. Per quella sfida con se stessi che è la pagina bianca e per il fatto che l’avversario non c’entra proprio niente, se manca la propria coscienza si può giocare al meglio ma non si vincerà mai. Credo che sia sempre una questione di muscoli delle gambe quando tutti pensano alle braccia, ecco, qualcosa del genere.

Prima che il tennis emergesse dalla superficie del mercato libraio, mi è capitato di leggere Essere John McEnroe, di Tim Adams (Mondadori, 2005). Poche pagine biografiche (127) che tracciavano perfettamente il carattere dell’ex testa di serie, senza fronzoli, senza cercare di spiegare l’inspiegabile o di giustificare l’ingiustificabile. Asciutte, come un match 6-0, 6-0. Poi – viene naturale – è stata la volta de Il tennis come esperienza religiosa, di David Foster Wallace. Non so perché, ma identifico in quel libro il momento in cui gli intellettuali hanno sdoganato la propria passione, e finalmente è venuto il tempo di scrivere di tennis anziché continuare a coltivarlo come un normale segreto inconfessabile. Leggevo non molto tempo fa un breve articolo su Finzioni – a firma di David Forese – che si stupiva del fatto che J.M. Coetzee scrivesse a Paul Auster della sua passione. Trovo che non ci sia nulla di sorprendente: il tennis per sua natura è un esperienza intima, che trova il suo posto tra le pagine di una corrispondenza privata – poi riportata integralmente nel volume Here and now, ancora inedito in Italia.

Anche qui è una questione di antipodi, l’approccio di Coetzee è posato e incidentale, quello di Wallace è reverenziale e prorompente, allo stesso tempo plateale e funzionale, un po’ come Nastase che aspetta il servizio dell’avversario con un ombrellino parasole. Ricorda qualche articolo di Hunter S. Thompson, che mescolava la posatezza del tennis alla velocità delle corse. Sempre Forese riporta l’affermazione di Auster che «gli uomini hanno bisogno di eroi, per questo si appassionano allo sport». Vorrei prendermi la libertà di completare questo assunto: gli uomini hanno bisogno di eroi che gli somiglino, per questo si appassionano al tennis. Il fatto di sentirsi soli e di dover affrontare le difficoltà contando sulle proprie energie, senza poter fare affidamento sulla certezza del terreno – se li mettevate a giocare sul sintetico ieri, Nadal non se ne sarebbe andato con quello sguardo saccente – senza demandare il problemi a nessun compagno di squadra, è una metafora perfetta della condizione umana. Non c’è niente di più difficile che correre dietro a quella gommina gialla che rimbalza a destra e a sinistra, niente di più difficile che prevedere un servizio e avere la potenza elastica di andarlo a recuperare dieci metri più in là.

Non è sorprendente che il caso letterario del 2012 sia stata la biografia di un tennista – Open di André Agassi, scritto con J. R. Moheringer (Einaudi Stile Libero), per chi avesse vissuto su Marte fino ad ora – e non è un caso che inizi con la dichiarazione «odio il tennis». L’eroe che si avvicina alla normalità, che soffre come una persona normale, che dorme per terra perché i premi non gli pagano una schiena nuova, che è costretto – come gli altri, come noi – a soffrire e a odiare il proprio lavoro. Il tennista è solo, disarmato e deve affrontare un corpo elastico lanciato contro di lui a duecento chilometri all’ora. Se questo non basta a giustificare la défaillance di Federer, che almeno serva a farcela comprendere più da vicino.

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