Cittadini, non sudditiBasta dire “riduciamo le tasse”, facciamolo!

​Lo stallo istituzionale durato circa due mesi ha portato il Parlamento a discutere un Documento Economico Finanziario predisposto dal Governo uscente invece che da quello subentrato. L’inevitabile...

​Lo stallo istituzionale durato circa due mesi ha portato il Parlamento a discutere un Documento Economico Finanziario predisposto dal Governo uscente invece che da quello subentrato. L’inevitabile conseguenza è quella di un Documento assai più dettagliato nell’illustrare le politiche che ci hanno portato a questo stadio e le riforme che sono state già varate, piuttosto che le politiche che caratterizzeranno il domani prossimo e venturo, nonché le riforme da attuare per corroborarle. Considerati i tanti condivisibili propositi enunciati dal nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri, in occasione della discussione sulla fiducia al Governo, è evidente che si renderà necessario quanto prima un aggiornamento della situazione, a cominciare dal Piano Nazionale di Riforma.

Già da ora, tuttavia, possiamo valorizzare al meglio questo Documento cogliendone gli spunti informativi che ci offre in modo puntuale e dettagliato.
Primo tra tutti, la qualità dell’azione di risanamento e messa in sicurezza dei conti pubblici, attuata nel corso del 2012 dal Governo Monti. Come spesso accade in questo Paese, la campagna elettorale è stata vissuta da molti come un momento di vacanza dalla serietà e dalla responsabilità. Ora che le vacanze sono finalmente finite, si può tornare tutti a confrontarsi con la realtà dei fatti e dei numeri, per capire punti di forza cui dare continuità e punti di debolezza su cui innestare correzioni di rotta, dando così una reale speranza di sostanza e fattibilità ai condivisibili propositi enunciati pochi giorni or sono dal Primo Ministro. La prima realtà con cui bisogna confrontarsi è quella della pressione fiscale.

Il Def ci illustra come nel 2012 sia schizzata al 44,03% e come nel 2013 e 2014 sia attesa rispettivamente al 44,40% e al 44,28%. Troppo elevata ed insostenibile, ma per ridurla bisogna avere innanzitutto chiari i presupposti che l’hanno determinata. Diversamente, si otterrà solo di creare i presupposti per aumentarla ancora di più in seguito. Questo livello di pressione fiscale non è figlio delle idee più o meno balzane di un gruppo di tecnici scollegati dalla realtà e incapaci di comprendere i riflessi recessivi che avrebbe determinato un aumento di quasi due punti percentuali di pressione fiscale da un anno per l’altro.

Magari lo fosse stato: allora sì che sarebbe stato sufficiente rimuoverli e voltare pagina. Questo livello di pressione fiscale è figlio delle mancate riforme strutturali; riforme che il nostro Paese ha rinviato sino a quando, a giugno 2011, la crisi strutturale dei conti pubblici è esplosa in tutta la sua sino ad allora negata evidenza, rendendo a quel punto inevitabile il ricorso allo strumento di riequilibrio più tristemente immediato e facile: l’aumento della pressione fiscale per aumentare le entrate di bilancio.

Ed infatti, già nell’ultimo Documento Economico Finanziario del Governo Berlusconi, approvato il 22 settembre 2011, dopo le due manovre estive e gli impegni assunti in sede europea, già risultava prevista per il 2012 una pressione fiscale del 44,07%, per il 2013 del 44,84% e per il 2014 del 44,83%.
Al Governo Monti possono dunque essere contestate alcune cose, ma certamente non quella di aver meramente attuato un incremento di pressione fiscale che, per ineluttabile necessità contingente, era già stato messo a bilancio pure da coloro che, per lo meno a parole, sono i primi nemici delle tasse. Anzi, a ben vedere, il Governo Monti è riuscito a reindirizzare gli impegni di bilancio verso una pressione fiscale leggermente inferiore a quella che gli era stata lasciata in eredità: – 0,03% nel 2012; – 0,44% nel 2013; – 0,53% nel 2014. Ci è riuscito grazie a una politica di rigore sulla spesa che, soprattutto se l’obiettivo è, come deve essere, quello di ridurre la pressione fiscale, deve necessariamente proseguire e semmai intensificarsi.

Anche da questo punto di vista, il confronto tra le risultanze del Def che stiamo discutendo e l’aggiornamento che fu approvato a settembre 2011 è prezioso per documentare, numeri alla mano, l’efficacia di una azione che deve proseguire su questo binario. Per il 2012, la minore spesa corrente a bilancio, rispetto a quella che si prevedeva nell’aggiornamento del Def di settembre 2011, è di 13 miliardi. Sul 2013 questo differenziale sale a oltre 16 miliardi e sul 2014 arriva a superare i 23 miliardi. Questo ragionamento è prezioso per capire alcune cose fondamentali, al fine di indirizzare al meglio le scelte future, senza inquinamenti da campagna elettorale.

Appurato che l’aumento di pressione fiscale era, nell’immediato, considerato inevitabile da tutti, la discussione oggi deve concentrarsi più che altro sulla qualità della sua mera attuazione da parte del Governo Monti. Ciò al fine di cogliere i profili di priorità nel riassorbimento delle singole componenti che hanno concorso ad attuare questo aumento. Da questo punto di vista, l’introduzione dell’Imu e l’aumento dell’Iva, quest’ultimo per altro in buona parte scongiurato e per la parte restante non ancora entrato in vigore, sono state scelte sicuramente preferibili ad aumenti dell’Irap e delle imposte sui redditi di lavoro.
Sfidiamo chiunque ad affermare che sarebbe stato meglio aumentare di venti miliardi la tassazione diretta su imprese e lavoratori. Ebbene: non vale forse lo stesso ragionamento oggi che, grazie ai frutti del risanamento dei conti, si può cominciare a impostare una graduale riduzione della pressione fiscale?

Questo ovviamente non vuol dire rinunciare in assoluto a limature sull’Imu, che anche noi riteniamo opportune e necessarie, soprattutto verso le famiglie numerose e nei confronti di coloro che sono gravati da mutui per l’acquisto dell’abitazione. Significa semmai avere chiaro una volta per tutte che, nell’istante in cui si decidessero di veicolare a questo scopo non uno o due miliardi di risorse, ma sette o otto, si starà dicendo agli italiani non solo “ti tolgo l’Imu sulla prima casa”, ma anche “non detasserò i redditi di lavoro degli under 30”, “non taglierò ulteriormente il cuneo fiscale” e forse anche “non bloccherò definitivamente l’aumento dell’Iva”. Perché l’unica alternativa, per fare tutte queste cose insieme, invece che alcune prima e altre solo poi, è far esplodere il deficit di bilancio. Un approccio che sappiamo avere ancora oggi estimatori trasversali, ma che costituisce l’origine dei problemi dei nostri conti pubblici, non il punto di arrivo della loro soluzione. Ecco che, nella impossibilità di fare tutto subito, l’ordine di priorità deve necessariamente essere quello della idoneità di una misura fiscale a impattare sulla crescita del PIL, proprio perché è con la crescita che si possono trovare le risorse per la copertura anche degli interventi che meno la impattano in modo diretto.

Noi auspichiamo che il Governo tenga bene a mente questo criterio nelle sue prossime scelte, contemperandolo solo ed esclusivamente con l’urgenza di dare sollievo anche alle famiglie più numerose ed a quelle la cui prima casa è gravata da mutuo ipotecario, agendo sì, in questo caso e con questi limiti, prioritariamente sull’Imu. Così come auspichiamo che, nel mantenere la barra a dritta sul contenimento della spesa, il Governo sappia ottenere dall’Europa il via libera per aumentare di uno 0,5% di PIL il deficit anche sul 2014, così da proseguire il piano straordinario di pagamenti dei debiti scaduti delle pubbliche amministrazioni nei confronti dei loro fornitori. I numeri del Def evidenziano infatti come sul 2014 possa sicuramente esservi lo spazio non solo finanziario, ma anche economico per ripetere l’operazione varata quest’anno dal Governo Monti.

Enrico Zanetti
Deputato Gruppo Scelta Civica e Vicepresidente della Commissione Finanze della Camera

Twitter: @enrico_zanetti