AmicilegaliCicaleggio sul diritto di cronaca

È domenica mattina e, sorseggiando la consueta tazzina di caffè, sfoglio i quotidiani. Un occhio mi cade su una proposta che recentemente sul suo Blog Beppe Grillo ha lanciato: depenalizzare il re...

È domenica mattina e, sorseggiando la consueta tazzina di caffè, sfoglio i quotidiani. Un occhio mi cade su una proposta che recentemente sul suo Blog Beppe Grillo ha lanciato: depenalizzare il reato di diffamazione. Senza entrare nel merito del dibattito politico e parimenti senza presunzione di esaustività, propongo una breve riflessione sul bilanciamento – rectius: sbilanciamento – del diritto di cronaca e di quello alla reputazione (e/o riservatezza).
I. In tema di diffamazione a mezzo stampa (art. 595 c.p.), il diritto di cronaca puo’ essere esercitato, quando ne possa derivare lesione all’altrui reputazione, prestigio o decoro, soltanto qualora vengano dal cronista rispettate le seguenti condizioni: a) che la notizia pubblicata sia vera; b) che esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti in relazione alla loro attualita’ ed utilita’ sociale; c) che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della piu’ serena obbiettivita’.
In altre parole: il diritto di cronaca non esime di per se’ dal rispetto dell’altrui reputazione e riservatezza, ma giustifica intromissioni nella sfera privata dei cittadini solo quando possano contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti per la collettivita’.
Questo è, in generale, il limite che differenzia il diritto di cronaca dalla diffamazione.
Mi spiego. La diffamazione è il reato per eccellenza commesso attraverso la stampa e quasi inevitabilmente sempre più spesso l’attività di cronaca porta all’esposizione di fatti lesivi della altrui reputazione.
Si verifica, così, lo scontro tra due diritti costituzionalmente protetti: il diritto di manifestazione del pensiero e il diritto all’onore. Conciliare i due diritti parrebbe impossibile: ecco allora che la Cassazione più volte è stata chiamata a decidere se l’attività del giornalista potesse essere definita come esercizio del diritto di cronaca o, diversamente, la condotta esaminata fosse penalmente rilevante e, quindi, sussumibile nel reato di diffamazione.
Sul punto mi preme ricordare alcuni “casi” peculiari balzati all’onore – è proprio il caso di dirlo –delle cronache…
Nel 1998, la Corte di Cassazione – dovendo valutare se il giornalista si era spinto un po’ troppo in là, pubblicando delle notizie riguardanti un processo in corso – ha sentenziato: “L’esercizio del diritto di cronaca è possibile anche in pendenza del processo penale, non potendosi riconoscere all’imputato un diritto alla tutela della propria reputazione in misura maggiore di quanto non spetti agli altri soggetti…Sicché deve considerarsi lecita, in particolare, la diffusione della notizia di un arresto di una persona sottoposta ad indagini, come di ogni altra notizia desunta, senza richiami testuali, dal resto di un atto non coperto da segreto”. Uno a zero per il giornalista. Tempo dopo, nel 2001, la Suprema Corte si è trovata a decidere l’episodio di un giornalista che, riportando un fatto di cronaca accaduto, aveva anche pubblicato una parte dell’intervista citando “letteralmente” le parole dell’intervistato, parole che, a ben vedere, erano gravemente lesive dell’altrui reputazione. Il tale ipotesi aveva colpa o meno il cronista?
Ecco cosa disse la Corte: “In tema di diffamazione a mezzo stampa, la condotta del giornalista che, pubblicando il testo di un’intervista, vi riporti, anche se “alla lettera”, dichiarazioni del soggetto intervistato di contenuto oggettivamente lesivo dell’altrui reputazione, non è scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca, in quanto al giornalista stesso incombe pur sempre il dovere di controllare veridicita’ delle circostanze e continenza delle espressioni riferite.” Pareggio per il diritto alla reputazione.
Ma veniamo a noi.
II. Nell’ipotesi in cui si ritenesse che la notizia pubblicata sia diffamatoria, la “vittima” cosa può fare?
In primo luogo vi è il diritto di rettifica, ai sensi dell’art. 8 L. n. 47/1948, secondo cui «il direttore o, comunque, il responsabile è tenuto a fare inserire gratuitamente nel quotidiano o nel periodico o nell’agenzia di stampa le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale”.
Nel caso in cui non sia pubblicata la rettifica o la dichiarazione nei termini sopra indicati, ovvero lo sia stata in violazione delle modalità sopra descritte, l’autore della richiesta di rettifica può chiedere al tribunale con procedura di urgenza che sia ordinata la pubblicazione richiesta. La mancata o incompleta ottemperanza all’obbligo di rettifica è punita con la sanzione amministrativa da lire 15.000.000 a lire 25.000.000.
Altrimenti è appena il caso di dirlo… può ricorrere alla giustizia in sede penale (querela) – ecco dove andrebbe a colpire la riforma del movimento a 5 STELLE – o in sede civile attraverso un’azione cautelare (ex art. 700 c.p.c. ) oppure in via ordinaria.
III. Inoltre occorrerà valutare chi deve essere chiamato a rispondere.
Restringendo il campo alla diffamazione a mezzo stampa, l. 8.2.1948 n. 47 stabilisce che la persona offesa può chiedere il risarcimento dei danni al responsabile della diffamazione, da intendersi in senso rigorosamente soggettivo e, quindi, al giornalista ed al direttore responsabile.
IV. Da ultimo affrontiamo la questione più importante: quella della quantificazione del risarcimento del danno non patrimoniale.
La valutazione del danno riportato dalla “vittima” deve essere effettuata in base a criteri equitativi, alla luce del combinato disposto degli artt. 2043, 2059 e 1226 c.c.
In ordine alla quantificazione, la giurisprudenza ha optato in fattispecie analoghe per il criterio equitativo, ma alla luce di criteri oggettivi che tengano conto di tutte le circostanze della fattispecie, in modo da garantire l’adeguatezza del risarcimento.
La Suprema Corte ha infatti statuito, per quanto riguarda i danni non patrimoniali derivanti da diffamazione a mezzo stampa, che “il danno si determina in base al criterio della gravità del fatto, considerata sia sotto il profilo oggettivo (gravità dell’accusa mossa) sia sotto il profilo soggettivo (personalità del soggetto offeso e incidenza dell’accusa sullo stesso), nonché in base al criterio della natura e diffusione del mezzo di informazione” (Cass. Civ., III, 19.9.1995 n. 9892; in senso analogo, di recente, Cass. Civ., III, 20.12.2007 n. 26964). In altre parole, gli indici presuntivi dell’esistenza di tali danni non patrimoniali fungono anche da indici di commisurazione della loro entità.
Inoltre, oltre al risarcimento dei danni, la “vittima” può chiedere una somma a titolo di riparazione che non rientra nel risarcimento del danno né costituisce una duplicazione delle voci di danno risarcibile, ma integra un’ipotesi eccezionale di pena pecuniaria privata prevista per legge, che come tale può aggiungersi al risarcimento del danno automaticamente liquidato in favore del danneggiato (cfr. Cass. Civ., III, 26.6.2007, n. 14761; Trib. Messina, sez. I, 10.02.2006). Tale somma deve essere determinata in relazione alla gravità dell’offesa ed alla diffusione dello stampato.

Da quanto precede, ci si rende conto di quanto sia labile il confine fra i due diritti in esame (onore – cronaca), forse tutto sarebbe più semplice se la Cassazione avesse sposato la tesi di Gorge Orwell: “La vera libertà di stampa è dire alla gente ciò che la gente non vorrebbe sentirsi dire”.

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