(In)ClementiContro il “benicomunismo” e la sua retorica (*)

Domani a Bologna ci sarà un referendum ispirato ancora dal c.d. “benicomunismo”: un movimento che a molti appare sempre più una sgangherata retorica di buoni sentimenti sommata all’ennesima teorica...

Domani a Bologna ci sarà un referendum ispirato ancora dal c.d. “benicomunismo”: un movimento che a molti appare sempre più una sgangherata retorica di buoni sentimenti sommata all’ennesima teorica su “un altro mondo è possibile”, il tutto, peraltro, condito da un lessico millenarista, modellato sulla falsariga del “ricordati che devi morire” del film di Benigni e Trosi “Non ci resta che piangere”.
Eppure, proprio il voto di domani, ci permette di sottolineare alcune cose forse utili a riportare a razionalità la “mistica del benicomunismo”, che in questo momento di crisi rischia di abbacinare troppi nella sinistra italiana.
In fondo, le dimensioni di pubblico, privato, comune, compongono e determinano tanto la vita piccola e quotidiana di ciascuno di noi quanto l’andamento -in grande- delle nostre complesse, veloci e multiformi società. Tre dimensioni senza tempo, naturalmente. Ma ciascuna, evidentemente, pure con un suo tempo.
Così, abbiamo conosciuto gli usi (e abusi) del pubblico, inteso come statale, nella sfera delle nostre vite: dalla pervasività asfissiante, pericolosa e -non di rado, ahinoi- pure ridicola dei totalitarismi, al trionfo dell’inter-mediazione come metodo di governo e sistema socialmente ben accetto di relazione tra individui e tra individuo e autorità, sotto l’egida di una politica auto-centrica, invasiva di ogni sfera sociale ma, al tempo stesso, del tutto pure irresponsabile.
Del pari, conosciamo cosa portano gli usi (e abusi) del privato nella sfera delle nostre vite: dalla finanziarizzazione dell’economia con i conseguenti crac che finiscono per essere ripianati dai nostri conti bancari, all’esaltazione della mercificazione dei rapporti tra gli individui, espressione simbolica della c.d. “privatizzazione del mondo”, fino a internet e i suoi social networks che ci rendono sia protagonisti e fruitori globali delle cose globali, liberi finalmente di viverci dentro, sia potenzialmente schiavi di un anaffettivo individualismo di relazioni peer-to-peer, che ci può portare a ridurre l’altro ad un semplice indirizzo twitter, contatto facebook o linkedin. Confondendo mezzi con fini.
Alcuni oggi auspicano una terza dimensione, quella comune -che è altra da comunitaria, si badi bene!- che quando le dimensioni si fanno cose diviene, appunto, “benicomunismo”.
Così, dal singolare al plurale, abbandonata la retorica dei beni pubblici per quella dei beni privati, oggi pare trionfare a sinistra il benicomunismo. Che diviene mantra e, per alcuni, addirittura manifesto, portando ad eccessi sublimi: basti pensare all’occupazione ad libitum –altro che simboli!- del Teatro Valle a Roma in nome della libertà di espressione e dell’ “amare le pratiche orizzontali” (sic!) o, appunto, alla propaganda utilizzata intorno al referendum di domani a Bologna.
Di cosa si tratta? Di una confusione tra ciò che è bene pubblico e beni comuni. Beni comuni sono quei beni a servizio della comunità e per questo sono regolati dalla politica. Alcuni possono essere prodotti dallo Stato (pero’ lo Stato puo’ anche essere autoreferenziale e negativamente favorire solo i “suoi” gestori di quei servizi) e beni comuni prodotti da privati secondo le regole pubbliche. Invece da un po’ di tempo si fa confusione e si ritorna a forme di statalismo -attribuendole peraltro alla Costituzione che su questo proprio non ha colpe- mentre invece il vero responsabile è il titolare dell’agire politico, cioè il partito (o i partiti) che, nel caso di specie, è quello trasversale della spesa pubblica. Che abusa del ruolo che la democrazia rappresentativa correttamente gli affida.
Gli effetti della retorica del benicomunismo? Si spazia con tutta serenità dentro comode trappole ideologiche e mistiche giaculatorie. Si vive così tra un ridicolo irenismo, che ci rende tutti invasati aedi di un moderno francescano “Cantico delle creature”, a un ipocrita perbenismo dove, poiché tutto è comune, non è di nessuno e quindi posso legittimamente abusarne.
Accade così che si scambiano lucciole per lanterne e si perde di vista la realtà concreta. Ad esempio, in nome di acqua-bene-comune, si rende irrilevante il fatto che ci sia la presenza di mafie che mercificano l’acqua di fronte a bucati acquedotti pubblici, confondendo proprietà e gestione, captazione, trasporto e distribuzione; in nome di un diritto alla casa-bene comune, si occupano palazzi (o teatri…) senza valutare che comportamenti di questo tipo determinano reazioni opposte e contrarie giustamente in nome del principio di legalità; in nome di un’istruzione-bene-comune, si considera secondario il fatto che ci siano bambini che, appunto, non hanno posto nelle scuole statali o comunali. Per non dire poi che si dimenticano totalmente le numerose e complesse condizioni che, ad esempio, il Nobel Ostrom pone all’uso della soluzione condivisa per la gestione dei beni collettivi, una soluzione che non si trasforma in un’ideologia ma si affianca a quella gerarchica e a quella di mercato, secondo un principio di confronto pragmatico tra costi e benefici.
E’ il solito problema, in fondo. Si potrebbe dire, in una battuta, che non sappiamo più distinguere. Cioè scegliere. Infatti, tra un crescente overflow di informazioni che il mondo ci offre e una decrescente consapevolezza della necessità di una responsabilità individuale nelle cose della vita, il nostro dovere di fare lo sforzo di scegliere con responsabilità –informandoci, comparando, determinandoci, optando appunto- finisce spesso nel cestino, lasciando vincere l’ipocrita e falso diritto di ammantare retoricamente il nostro decidere, distorcendo parole come comunità, partecipazione, condivisione.
Come se ne esce? Considerando che pubblico, privato, comune si possono realizzare soltanto se ci sono delle pre-condizioni nella società che consentano di distinguere. Insomma, impegnandosi per rendere la nostra società aperta nel favorire, pluralista nel lasciar nascere e sviluppare, competitiva nel consentire a ciascuno di valutare e misurare.
Insomma, poliarchica; cioè in una dinamica continua tra mercato, concorrenza e regole.

Pensare che tutto si risolva, invece, con la retorica da “un altro mondo è possibile” rende il benicomunismo sinonimo di benaltrismo.

@ClementiF

Articolo uscito per “Europa Quotidiano” il 25 maggio 2013 (p. 1) – link

X