Eppure lo credevamo immortale.
Quando la maggior parte di noi nasceva, lui era già lì, ad occupare quello scranno in Parlamento che dal 1946 non avrebbe mai lasciato, prima come deputato della Repubblica e poi da Senatore a vita. Nel corso degli anni è diventato il cavallo di battaglia della satira, che prendeva bonariamente in giro l’uomo, per i suoi difetti fisici, e il politico di lungo corso ed esperienza, per la sua capacità di attraversare indenne più di sessanta anni di storia della Repubblica italiana.
Adesso che lui non c’è più, ci sentiamo tutti un po’ più soli. Anche coloro che lo hanno avversato e attaccato fino all’ultimo, hanno perso per sempre il loro capro espiatorio. D’altronde, l’aveva capito anche Francesco Baccini che, nel 1992 gli dedicò una canzone, che qualsiasi cosa avvenisse nel Belpaese era un po’, anche, colpa di Giulio Andreotti.
Sono tanti i segreti che sono morti con lui, sepolti nella semplice bara di legno chiaro che egli stesso ha scelto. Stragi di Stato, delitti, connivenze: tutto tacerà insieme a lui, mentre noi continueremo a farci domande e avanzare ipotesi.
Con lui se ne va una parte di storia del nostro Paese e un modo di fare politica così totalizzante da rendere impossibile capire dove finisse l’uomo e cominciasse il politico, e viceversa. Giulio Andreotti era colui che incarnava perfettamente la definizione aristotelica di ‘zòon politikòn’: era un ‘animale politico’ a tutto tondo, senza soluzione di continuità.
Oggi, che viviamo nell’era della non-politica, che della politica abbiamo dimenticato la lingua, il prestigio, la vocazione, la morte di Andreotti lascia un vuoto enorme. Indubbiamente, molto resta da biasimare nelle sue parole, opere e- soprattutto- nei suoi omissis, ma la sagacia delle sue immortali battute, lapidarie ed essenziali, in questi tempi di politica urlata e autoreferenziale, la rimpiangeremo un po’ tutti, estimatori e detrattori.
Lui ci ha insegnato che il potere logora chi non ce l’ha. La storia ha già dimostrato che aveva ragione.