Dopo le dimissioni di Bersani e il passaggio ad ‘altro onorevole impiego’ del vice segretario Letta, sembra che il PD si avvii a deliberare una segreteria di reggenza; una scelta di consuetudinario rinvio di fronte agli appuntamenti ad ora fissa che la storia presenta, un time out per tirare il fiato e aggiustare la tattica; un reclamo a Chronos affinché elargisca complicità nella costruzione immediata di una nuova trama fornendole ciò che le manca: il tempo.
Non è la prima volta. E’ capitato ancora. Fu per gestire le dimissioni di Veltroni.
Anche in quell’occasione il PD entrò in crisi nella difficoltà di mantenere l’ordine dopo la sconfitta elettorale. Era dilaniato da problemi ‘caratteriali’ tramandati dal patrimonio genetico dei ‘soci’ fondatori e derubricati in errori con autoassolutoria incoscienza e comodità. Ma ci saranno altre occasioni per un’analisi mendeliana.
Edward Hopper – Ground Swell – 1939
Per fronteggiare il trauma della rinuncia di Veltroni si provò col consigliare al suo vice Franceschini, di accettare un incarico da reggente. Fu come negargli, da subito, col suo consenso, l’impossibilità di un tempo più lungo. Una prestazione a mezzo servizio, insomma; una scelta per ‘non scegliere’, opzione antesignana del concetto di ‘non vittoria’ che con Bersani ha fatto raggiungere alla litote, ed in tempi recenti, la dignità del trionfo politico.
Il piano di ‘buttarla’ in rinvio tuttavia non riuscì. Franceschini chiese ed ottenne la garanzia dei pieni poteri per accettare l’incarico di segretario.
Fu allora che i sostenitori sconfitti della luogotenenza, assurta a notorietà nelle pratiche politiche italiane grazie all’ingegno tutto gius-partenopeo di Enrico De Nicola, congegnarono la rivincita prendendo le piccole vie del sabotaggio, ornate dalle frasi d’ordine di alcuni militanti alamodes e storici strateghi di riusciti (non sempre) successi.
“L’elezione di Franceschini – disse pressapoco il militante ‘mordi e fuggi’ Gad Lerner – è priva di legittimazione per il mancato ricorso al bagno delle primarie, al quale presentare Bersani.”
“Al segretario è richiesto – incalzò lo stratega di successi romani Goffredo Bettini – l’impegno a non presentare la sua candidatura al congresso successivo.”
Naturalmente ci furono anche altri che parlarono, e molta ‘folla’ che applaudì: forse la stessa folla che ancora in queste ore insiste sul Rodotà-tà-tà, come da qualche settimana ritma con riuscita ironia l’elefantino rosso di Giuliano Ferrara.
Non solo. Sullo sfondo Bersani sbraitò. Fu uno sfogo di pentimento per non aver rotto prima ogni indugio, presentando la sua candidatura. L’errore non sarebbe stato più ripetuto, promise, convincendosi forse in quel momento che è “meglio tenere un passerotto in mano che un tacchino sul tetto.”
Il passo lento della reggenza, sia pur formalmente negata, assicurò al PD un segretario certamente capace ma imbrigliato nel pensiero corto, nell’attesa e nel soprassedere, ritrovandosi a fare i conti con una disputa da rinviare a qualche mese dopo. Non fu indicato come reggente, ma si ritrovò ad esserlo, gravato dall’ipoteca che il tempo migliore doveva ancora venire, con altri protagonisti che puntualmente arrivarono qualche mese dopo, incrociando aspettative identitarie che nel PD sono maggioranza ma che stentano a divenirlo nelle cabine elettorali.
La storia successiva è nota e non ha bisogno di ermeneutica.
Difficile dire se l’esperienza di Franceschini, contando su tempi più lunghi, avrebbe portato risultati migliori di quella Bersani, o cosa sarebbe accaduto se Bersani avesse deciso di presentarsi candidato segretario molto prima di quando lo fece, commettendo – a detta di Lerner – “una cavolata”. Probabilmente nulla di diverso.
Innegabili, invece, sono gli elementi di similitudine che la vicenda post veltroniana presenta con il tempo presente. Conoscerla o ricordarla può servire ad evitare infruttuose reggenze o più larghi ed accomodanti comitati, pur sempre di reggenza.
Il PD ha bisogno di scegliere con convinzione un segretario ‘vero’ sul cui lavoro scommettere. Ha bisogno di una guida prescelta non certo per occupare col suo cappello una sedia luogotenenziale. Ha insomma da assicurarsi contemporaneamente ‘il passerotto in mano e il tacchino sul tetto.’
Occorre che si consegni alla vita interna – i congressi – e a quella esterna – le elezioni – con un uomo da scegliere tra i dirigenti più in vista, per ambire a guidare da segretario ‘pieno’ i prossimi anni, e portare il frutto del suo lavoro al giudizio elettorale, i cui comizi potrebbero essere convocati con un’improvvisata.
Nei prossimi giorni sentiremo argomenti di elogio sulla gerenza provvisoria, accompagnati dal titillare falsamente promettente di parole poco propense al coraggio. È il linguaggio tipico della condizione leggera e disimpegnata del minorenne, a cui si perdonano con clemenza tutte le sequenze di occasioni perdute o rinviate.
La reggenza al momento può sembrare una soluzione anòdina. Ma i dolori arrivano dopo. Sono quasi sempre effetto di coraggio dismesso, assecondando l’ordine – detto con Rushdie – di mettersi seduti per non fare “oscillare la barca”.