Dio, com’è difficile parlare del mio rapporto con Topolino. Ho cominciato questo pezzo almeno cinque volte, senza contare tutte quelle che ho rigirato l’incipit nella mia testa per venire finalmente a patti con la sincerità. Non è facile. Non è facile come non è facile parlare del tragitto che percorrevo tutte le mattine per andare al liceo. Lo avrò fatto migliaia di volte, lo conoscevo a memoria, avrei potuto elencare le scritte sui muri, riconoscere i ciuffi d’erba tra le crepe nel marciapiede, individuare le nuove gomme da masticare che macchiavano l’asfalto, ma non saprei dire adesso la sensazione che mi dava.
Topolino è sempre stato lì, che io ricordi. In file gialle e ordinate – che indubbiamente hanno influenzato la mia compulsività – a fare da vettore per ogni sensazione, in ogni momento della mia vita. La mattina scendevo a fare colazione con tre o quattro vecchi numeri sottobraccio, che avevo scelto cercando di capire quanto li ricordassi dalle copertine. Se mi accorgevo di avere in mente una storia troppo bene, passavo alla successiva, se vedevo che le sapevo tutte ricominciavo da capo con un altro numero fino a che non riuscivo a trovarne una che mi sembrasse fresca. Mangiavo e leggevo, di qualsiasi umore fossi, qualsiasi cosa fosse successa il giorno prima o stesse per succedere. Amavo Paperino, odiavo Eta Beta con tutto il cuore. Mi ricordo della volta in cui mio fratello – aveva già una decina d’anni – decise di non leggere più nessuna storia con Topolino come protagonista, perché aveva imparato a riconoscere i cattivi dal fatto che corrugavano la fronte e parlavano piegati in avanti. Pensai che era vero e partecipai al suo sciopero per un po’, ma poi i numeri finivano troppo velocemente e recuperai tutto. Credo che ora, dopo molto tempo, mio fratello abbia fatto pace con i cattivi e stia cercando di recuperare anche lui.
Mi sono abbonato relativamente tardi, ma solo per evitare la fatica di andare in edicola ogni mercoledì, e dopo un po’ di tempo ho scoperto che come fedelissimo avevo diritto a ricevere i gadget in anteprima e già montati. Era davvero un privilegio, perché tutti gli altri dovevano aspettare mesi – i mesi estivi per altro – per avere quello che io avevo in un colpo solo. Quando uscirono i walkie talkie però non conoscevo nessun altro abbonato, e non avevo nessuno con cui giocarci. L’abbonamento diede un altro senso ai mercoledì, e mi attaccò la mania – che nutro ancora oggi – di controllare la cassetta della posta ogni volta che torno a casa. Amavo Pippo, ho odiato il criceto Bruce che per un po’ ha fatto da mascotte nelle prime pagine.
Non so bene se ho mai scritto una lettera alla posta di Topolino, ma so che vorrei scrivere una sceneggiatura prima o poi. Come tanti per un lungo periodo ho pensato che gli autori fossero americani, e le storie fossero semplicemente tradotte, poi ho scoperto, con immenso orgoglio, che non è così. Ho imparato il nome di Tito Faraci prima di sapere chi fosse Cavour, e la prima volta che vidi la sua faccia era disegnata da Giorgio Cavazzano – la seconda da Leo Ortolani, ma questo è un’altro ambito. Ora lo considero un amico, ma quando me lo presentarono ero un fascio di nervi. La maggior parte degli sceneggiatori che leggevo non lo sa, ma mi hanno insegnato un sacco di cose. Rodolfo Cimino mi ha insegnato a dire cose come «me tapino!» e «ahinoi!», e per questo gli sarò sempre grato, ovunque sia. Alcuni disegnatori mi hanno fatto pensare di diventare un fumettista, la mia incostanza me l’ha impedito. Bruno Sarda, disegnando per la prima volta Indiana Pipps, mi ha regalato nuovi orizzonti e un concetto tutto particolare di campeggio.
Il numero 2000, uscito nel 1994, me lo persi, non ricordo per quale motivo, e lo vidi solo anni dopo a casa di un compagno di scuola. Glielo comprai con un sovrapprezzo assurdo, o con quello che ricordo come un sovrapprezzo assurdo ma che forse era una cifra molto inferiore al costo del numero in edicola. Per me, che avevo un budget personale di circa duemila lire, era qualcosa di impensabile e quando vidi che alcune pagine erano pasticciate – ma come diavolo gli era venuto in mente di pasticciare un oggetto così prezioso? – e quella dei giochi già compilata, pretesi indietro parte della somma. Litigammo ma alla fine la spuntai. In realtà non ho mai fatto i giochi di Topolino, ma per un po’ di tempo ho avuto una ragazza – al liceo – che li adorava e gliene lasciai compilare ogni volta che veniva da me. Visto come sono andate le cose – non bene, senza entrare in particolari di dubbio gusto – non è stata una grande idea. Adoravo quando Zio Paperone costringeva i nipoti a viaggi avventurosi, odiavo la saccenteria di Tip e Tap. Non ho mai visto il numero 1000, del 1975, ma mi auguro un giorno di averlo per le mani. Ho una ristampa del numero uno, che in qualche occasione ho spacciato per originale.
Un paio di volte all’anno mi trovavo ad avere a che fare con le raccolte: quando ero malato, e mia madre cercava di riempire le mie ore di nullafacenza, e al mare coi nonni, periodo di due settimane durante il quale avevo bisogno di qualcosa da leggere ogni giorno. Non so se le fanno ancora ma ricordo che erano, di fatto, tre numeri regolari di un paio di anni prima incollati assieme e tenuti in forma da una copertina riepilogativa. Tornato a casa – o rimessomi dalla febbre – li staccavo con pazienza certosina e piano piano, facendo attenzione a non rovinare la costa, toglievo la colla per poterli infilare assieme gli altri. Almeno una volta all’anno prendevo tutti i numeri – allora più di seicento – e cominciavo a riordinarli in ordine crescente. Di solito mi annoiavo a metà e li rimettevo a posto come venivano, ma ho il ricordo netto della soddisfazione piena e rotonda di quell’unica volta in cui ho finito il lavoro. Da allora presi a definirmi un collezionista e per un po’ la gente mi guardò con rispetto. Adoravo i mercoledì di Pippo, che fine hanno fatto? Avrei voluto vederli tutti in un solo volume, o in una collezione di volumi, ma forse non ne esistono abbastanza.
Ci sono alcune cose che ho notato nel corso degli anni, e che conservo come rivelazioni: il momento in cui è sparito il logo Mondadori per dare spazio a quello Disney (mi dicono al numero 1702), il fatto che Indiana Pipps abbia avuto molte più “donne” di Topolino e Zio Paperone di Paperino, ma che questo non abbia mai influenzato i rapporti, Pippo ricordo di averlo visto innamorato una sola volta, il fatto che Gancio abbia smesso di fumare il sigaro e sia sparito dalla circolazione per un po’, il fatto che Topolinia venga collocata nella cartina molto vicina a Paperopoli, ma che paperi e topi si incontrino molto di rado, il fatto che le torte di Nonna Papera siano passate da una forma a apple pie a qualcosa di molto più voluminoso e generalmente sormontate da una ciliegia, il fatto che quasi tutti i personaggi abbiano la patente ma nessuna auto ha il cambio, il fatto che quella che ho imparato a chiamare eterna primavera di Topolinia venga spezzata solo in due occasioni, dalla neve a Natale e dall’afa ad Agosto, il fatto che espressioni come puff, pant e gasp si attacchino all’immaginazione ed emergano perfettamente inserite nel contesto prima ancora di sapere cosa significhino, il fatto che per uno strano scarto storico Topolino abbia smesso di chiamarsi Mickey.
Ecco, potrei andare avanti all’infinito. La mia vita con Topolino è così: una collezione di pezzetti di aneddoti, di odi e amori, di cose che avrei voluto fare e cose ho fatto, scollegati l’uno dall’altro. Più ne scrivo più me ne vengono in mente. Scommetto di averne quasi tremila, uno per numero.
{ Il numero 3000 di Topolino sarà in edicola domani, mercoledì 22 Maggio 2013, avrei potuto fare un pezzo compilativo, ho fatto un pezzo di cuore }