Estate. Una vecchia casa nella zona nord di Londra. Uno stanzone che occupa tutto il palcoscenico. Il muro, che una volta separava questa stanza dall’ingresso e che comprendeva anche una porta, è stato demolito. Ora c’è solo un’apertura ad «arco quadrato», dietro la quale c’è l’ingresso. Nell’ingresso, fondoscena sinistro, c’è una scala, che sale, bene in mostra. La comune è in fondoscena, destro. C’è un attaccapanni a muro, con ganci ecc. Nella stanza c’è una finestra, a destra. Tavoli e sedie vari. Due grandi poltrone. Un grande divano a sinistra. Una grande credenza a muro appoggiata alla parete destra con in alto uno specchio. In fondo, a sinistra, c’è un radiogrammofono appoggiato contro la parete della stanza.
Lette queste premesse in didascalia si apre una scena su The homecoming di Harold Pinter che può trasformarsi alternativamente in ritratto espressionista di interno sfatto, come nella cornice nuda di una famiglia dove l’abitudine più trita è sgualcirsi reciprocamente col sarcasmo nero e l’insistenza sul passato peggiore. La versione registica di Luc Bondy, direttore dell’Odéon-Théâtre de l’Europe, affida proprio a quella didascalia riabitata da un corpo famigliare di soli uomini la gabbia drammaturgica che precede lo scoppio. E non si tratta di semplice sessismo pinteriano quando, a un certo punto, subentra il disturbo femminile che si fa compravendita tanto odiosa, quanto miserabile nel cinismo. Il ritorno a casa di Teddy, figlio maggiore di un ex macellaio, fa sì che nella prigione della comune domestica si rovescino non soltanto i ruoli, ma soprattutto le condizioni del linguaggio e della percezione di genere.
Non ha tuttavia interventi così diretti ed espliciti la regia di Bondy che si avvale di un cast acclamato dal mestiere sempre eccellente di Bruno Ganz, nei panni aspri del padre Max, e dal ritiro dolente di Pascal Greggory per il personaggio di Sam, suo fratello. Ma ci sono anche le leve più cinematografiche di Emmanuelle Seigner che è Ruth, provocazione e icona, o Louis Garrel promesso pugile Joey e figlio prediletto.
L’opposizione dell’uno all’altro, il senso di minaccia latente di cui scrive Pinter e che non si sana mai, ma cresce in temperatura rischia di affidarsi unicamente alla bravura attorale che Bondy fa troppo linearmente ruotare attorno all’affare Ruth, effigie di una bellezza vacua e tentatrice, travolta dalla stessa oscurità che in passato ha mosso alla fuga Teddy, suo marito. Ed è appunto il suo ritorno a casa accanto alla moglie il prezzo di una buona intenzione malmessa da un silenzio di anni, dalla morte di una madre cara alla memoria, dalla violenza repressa e rispuntata viva e vegeta prima nell’equivoco che associa da subito Ruth al malaffare e poi di quest’ultimo fa una lenta contrattazione cui la donna non si sottrae.
Se da un lato la regia e la traduzione del romanziere Philippe Djian incalzano da condizioni affini alla rottura pinteriana del compromesso per far scaturire tutti i rovelli e le macchie, i dolori e le contraddizioni, le pozze malsane di rapporti di sangue che mai verranno a pacificarsi se non intravedendo un tornaconto, è altrettanto vero che, pur nella scarnificazione continua e nella precedenza data alle pieghe manifeste nel copione di The homecoming, si ammettono rari momenti di verità scenica. Un contrasto a priori quello del vero in scena, ma una necessità teatrale ben oltre la convenzione, interna a una drammaturgia che non lascia margini ampi, ma secca con colpi netti e irrimediabilmente inglesi nella scansione verbale e nell’assenza di qualsiasi lima ed eleganza d’Oltralpe.
Se dunque la bravura di Ganz e Greggory si astrae dalla lentezza in parte voluta e in parte sganciata dall’aura sinistra di ognuno, la pur convincente goffaggine e prolissità di Micha Lescot, interprete di Lenny, il limite viscerale del piatto Joey, l’impotenza di Teddy (Jérôme Kircher) e la crudeltà erotica di Ruth non bastano a colpire nel segno morboso e mirato di Pinter. Servirebbe più coraggio, più disonestà per fare il paio con quel che questo autore descrive come l’essere intrappolati con la vana convinzione di potersi liberare un giorno, scoprendo in realtà d’essere già serrati in un’altra trappola.
Perché «[…] l’ordine è quasi chiedere troppo / e il disordine si nutre in grembo all’ordine / e l’ordine reclama il sangue del disordine / e «la libertà» e il lordume e tutti gli altri slordumi / addolciscono i propri crimini col profumo dell’ordine / disordine un mendicante in una stanza oscurata / ordine un banchiere in una pancia blindata / disordine un fanciullo in una casa gelata / ordine un soldato in una tomba avvelenata.
Fino al 12 maggio – Piccolo Teatro Strehler Milano
Le retour (Il ritorno a casa)
di Harold Pinter
traduzione Philippe Djian
regia Luc Bondy
scene Johannes Schütz
costumi Eva Dessecker
luci Dominique Bruguière
con Bruno Ganz, Louis Garrel, Pascal Greggory, Jérôme Kircher,
Micha Lescot, Emmanuelle Seigner
Coproduzione Odéon-Théâtre de l’Europe, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa