Gli occhi, quegli occhi suoi giganti, tenevano dentro il guizzo di un tuono.
Tenevano dentro l’energia di una tempesta di mare che sfotte gli scogli, li vota, li gira, li cangia. Ed ogni pensiero obbediva al sopracciglio suo che inclinava timido a guisa di ragionamento. Dentro al petto caldo, gl’ardeva quella passione civile che sarebbe esplosa e lo avrebbe dilaniato. Seppellito per sempre nel vento di una notte di vigilia e tormento, liberato nel nulla: in mille coriandoli di vuoto. Impastato Peppino lo era per davvero, germoglio di mala pianta: impastato dalla nascita al parentado sozzo di mafia. Come tronco d’olivo intorcigliato e simbiotico, nella terra dove la forza misteriosa di ogni famiglia è: l’inerzia. L’avvitarsi tutti attorno alla stessa bestemmia, a quella cosa rossa più forte di patti e alleanze: la legge del sangue; nelle vene il destino ti scorre lento fin dal primo vagito. E puoi solo assecondarlo, con l’ossequio del capo chino, puoi levarti la coppola e aspettare la vita. Oppure, ma non è che sia scelta allegra, puoi innestare nel fusto tuo smeriglio un ramoscello d’irresistibile sommossa. Dolce, come l’incoscienza.
Di Peppino s’irradiava la voce grinzata a bassa frequenza, non oltre le montagne, e correva beffarda e sfrontata la pernacchia alla Cinisi statica e collusa. Dolce, l’incoscienza sua aveva strappato all’ignavia di mille giovinezze senza sogni una legione di disertori. S’erano tuffati tutti insieme in un’Onda Pazza, sfiorando la libertà a tal punto che ora non potevano farne a meno. Ché non è faccenda inconsistente la libertà, è sudore e miscela di poesia. È corsa lungo l’argine dell’illegalità, con la milza che si spappola e le gambe che frignano, è urlo nella notte quando ti smembrano la vita a tradimento e ti danno alla morte nera come pacco di merce umana. Ti abbandonano al sospetto che s’insinua nel contado, alla detonazione che avrebbe voluto fare di te un birbante e non un sognatore. È faccenda tosta, la libertà: guerriglia a mani nude di ogni stramaledettissimo giorno. Ciuffo di chioma che s’agita scomposto e non conosce la noia che, in quelle quattro case tinte di calce e truffe, rassomiglia ai rosari snocciolati di vespro presto, mentre la cantilena di AveMarie apre un varco ai pensieri torti. Alle bugie imbottite di paura e cemento.
Invece la bellezza ha la faccia dell’ostinazione, del piglio tuo di quando ti dicono «maisìa» e tu te ne strafotti: ti aggrappi forte a una bandiera e ti senti il Redentore. Figlio e nipote ti toccherà di esserlo per sempre (che poi è un sempre striminzito di soli trent’anni), ma quello del ribelle è un vestito che ti cuci da solo, col filo anarchico di chi s’è stancato di obbedire. Ché di padroni è piena la strada, di padroni sono piene le masse e le ideologie, le messe e le liturgie: puoi solo scegliere di non averne alcuno, altrimenti millemila ti comandano da sopra. Il dissenso, come la tramontana, ti entra nelle orecchie e ti sparpaglia i catechismi che hai ingoiato da piccolino: è musica di batteria e mixer d’Oltreoceano, cultura di libri con dentro le storie dei grandi e le parole che da sole niente fanno. Solo se poi le ripeti e qualcuno le sente, il finimondo succede a Mafiopoli: sfami il rancore che ribollisce dentro le viscere della montagna, lo svezzi e spezzi le catene che ammanettano l’aria. Le parole sono la sinfonia del caos.
E la parola per dire l’ineffabile era: merda, scritto bello grosso sul giornale fatto di inchiostro e maramalderia. È assassina micidiale e si porta via la radice da cui vorresti strapparti, la parola. E certo è niente la parola, se resta sussurro di sillabe e tazebai, è tanto se si mischia alla polvere della piazza principale e diventa azione, riappropriazione, occupazione. Si sente l’acciaio della concretezza? È con le mani che si vince il disimpegno, si prende in braccio il futuro rugginoso di una terra di muli e lo si cappotta sottosopra. Così che i deboli si sentano potenti, ed i potenti nienti. Le incertezze poi, dentro casa albergano, hanno gli occhi di una madre: il lutto indossato e le camicie di un fratello: la bramosia di serenità. Di questa vita fiera, mai scorderai quanti dubbi ti hanno levato il sonno e quanti parenti il saluto. A forza di sottrazioni, s’impara a condividere la battaglia meschina e sincera contro la merda. Contro il padre tuo e gli sbirri infami –forse che il giusto sta stretto pure nella divisa?– che dissero il falso per il bene di don Tano.
La notte che lo pigliarono non era un giorno come tanti, la scialuppa di Caronte salpò da una strada ferrata. Può succedere che pure i necrologi facciano a gara per soffocare la memoria e strozzare un grido, ché dell’onorevole Moro si sarebbe dovuto parlare molto assai: giusto così. A pochi giorni dalle elezioni, un comizio più chiassoso non si poteva congegnare: tutta una città col pugno chiuso -quell’energia, poca, che rimane- e i manifesti listati a lutto sui mattoni e la radio con le lacrime nel microfono e la processione che si fa corteo e le candele a rallegrare il catafalco vuoto. Finirono con l’espropriare l’anima a chi difendeva le terre, e quel sangue sfasciato nella campagna intrisa di lotte – quel sangue – diventò nuova legge per tutti quanti sognassero il giusto: fu il delirio il megafono più rappezzato e vibrante. Fu un terremoto a squarciare le coscienze, sotto il sole che scalda imbrogli e silenzi, una catastrofe di orgoglio e smarrimento a due passi dall’aeroporto sghembo e fiacco. Chi prese il volo, quello fu Peppino. In una bolla di martirio ed emulazione: era il secolo scorso ma mai quell’oggi fu tanto fatale.