«Simili a formiche andiamo dentro ogni fuoco. Ogni acqua. Ogni fiume di sangue. Solo per non dover vedere. Che cosa? Noi.»
Christa Wolf, da Cassandra
La mia generazione non ha conosciuto la lotta, l’ha ascoltata senza sfibrarla di contestazione. Ci siamo tenute strette qualche privilegio in concessione di legge e ce lo siamo litigato nei ghetti delle quote rosa. Ci hanno sparato e provato a lenire con decreti di ultima ratio. Il racconto di chi ha poggiato il respiro sulla scena dai primi otto giorni di vita si è caricato per noi sulle spalle il piedistallo che teneva unito il talento intemperante di un Nobel, ed era un altro atto di fede al nostro ascolto.
La mia generazione non si è seduta per terra alla Palazzina Liberty per sollevare il teatro dell’indignazione e della repulsione verso l’ingiusto. Senza falsi schemi, né tornaconti che non fossero il piegare le ginocchia in un cantone e sentire i maestri. Le regole e i giochi delle accademie si sono reincarnati nel corredo antico di un’attrice dalla partecipazione volontaria, mai in ritiro di idee, né di atti.
La mia generazione ha prediletto il bivacco e l’incoscienza, si è fatta le ossa con i tabù e il ripetersi malefico degli ostracismi finché la smania, il raziocinio, la coerenza, lo slancio senza convenienza hanno scelto la sua levata del braccio in manifestazione per l’unico inno di democrazie non esiliate, per quei corpi già bruciati dalle sottomissioni domestiche.
Nell’instancabile memoria delle sue quinte che han plasmato e corretto il genio del compagno di battaglie, per quei sorsi d’acqua sospesi tra un grido di dolore e una commedia, Cassandra sa che «prima delle immagini le parole muoiono». Eppure, vuole restare testimone, continua a piegare la schiena sulla sedia che ospita la violenza che ha subìto e rende la sua nudità per un paio di occhi che, come lei, fanno «la prova del dolore» senza mai rimandare indietro la vita.
C’è una radio che suona, ma solo dopo un po’ la sento. Solo dopo un po’ mi rendo conto che c’è qualcuno che canta. Sì, è una radio, musica leggera. Cielo, stelle, cuori e amore. Amore. Ho un ginocchio, uno solo, piantato nella schiena, come se chi mi sta dietro tenesse l’altro appoggiato a terra, e con le mani tiene le mie fortemente girandomele all’incontrario. La sinistra, in particolare. Non so perché, ma mi ritrovo a pensare che forse è mancino. Io non sto capendo niente di quello che mi sta capitando. Ho lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello. La voce, la parola, Dio che confusione. Come sono salita su questo camioncino? Ci sono venuta io da sola muovendo i piedi uno dietro l’altro, dietro la loro spinta o mi hanno caricato loro sollevandomi di peso? Non lo so, non lo so. È il cuore che mi batte così forte contro le costole a impedirmi di ragionare. E il dolore alla mano sinistra che sta diventando veramente insopportabile. Ma perché me la torcono tanto? Io non tento nessun movimento, io sono come congelata. Ora, quello che mi tiene da dietro, non ha più il suo ginocchio contro la mia schiena, si è seduto comodo. Mi tiene tra le sue gambe divaricate, come ho visto fare anni fa ai bambini quando toglievano loro le tonsille. È l’unica immagine che mi venga in mente. Ma perché la radio? Perché ora l’abbassano? Forse perché non grido, non c’è molta luce e neanche molto spazio. È per questo che mi tengono semidistesa. Oltre a quello che mi tiene da dietro, ce ne sono altri tre. Li sento calmi, sicurissimi, che fanno? Si accendono una sigaretta, fumano adesso? Perché mi tengono così e fumano? Ho paura, sta per capitare qualcosa, lo sento. Respiro a fondo, due, tre volte. Ma non riesco a snebbiarmi, ho soltanto paura. Uno si muove, si ferma qua in piedi, davanti a me. L’altro si accuccia alla mia sinistra. L’altro alla mia destra. Sono vicinissimi. Ho paura, sta per capitare qualcosa, lo sento. Aspiro profondamente le sigarette, vedo il rosso delle sigarette vicino alla mia faccia. Quello che mi tiene da dietro non ha aumentato la stretta, ha soltanto teso tutti i muscoli. Li sento intorno al mio corpo, come a essere più pronti a bloccarmi. Il primo che si è mosso si inginocchia tra le mie gambe, divaricandomele, è un movimento preciso, pare concordato con quello che mi tiene da dietro. Infatti, i suoi piedi si mettono sopra i miei a bloccarmi. Io ho su i pantaloni, perché mi aprono le gambe con su i pantaloni? Sono a disagio, peggio che se fossi nuda. Questa sensazione mi distrae, qualcosa che non riesco a capire subito, un tepore tenue, poi sempre più forte fino a diventare insopportabile. Sul seno sinistro ho una punta di bruciore. Le sigarette, le sigarette ecco perché si erano messi a fumare. Io non so cosa debba fare una persona in queste condizioni. Io non riesco a fare niente. Mi sento come proiettata fuori, affacciata a una finestra, costretta a guardare qualcosa di orribile. Una sigaretta dietro l’altra, sopra il golf, fino alla pelle. È insopportabile. Il puzzo della lana bruciata deve disturbare, con una lametta mi tagliano il golf da cima a fondo, mi tagliano il reggiseno, mi tagliano anche la pelle in superficie. Nella perizia medica misureranno 21 cm e, quello che è inginocchiato tra le mie gambe, ora mi prende i seni, a piene mani, le sento gelide, son per le bruciature. Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, lo sento che si struscia contro la mia schiena. Ora tutti si danno da fare per spogliarmi: una gamba sola, una scarpa sola. Ora, uno, mi entra dentro. Mi viene da vomitare. Calma, devo stare calma. Mi attacco ai rumori della città, alle parole delle canzoni, devo stare calma. «Muoviti, puttana, devi farmi godere». Non conosco più nessuna parola, non distinguo più nessuna lingua. Sono di pietra. «Muoviti, puttana, devi farmi godere». È il turno del secondo: una sigaretta dietro l’altra. «Muoviti, puttana, devi farmi godere». La lametta che è servita per il golf mi passa sulla faccia una, più volte. Non sento se mi taglia o se non mi taglia. «Muoviti, puttana, devi farmi godere». È il turno del terzo, il sangue dalle guance mi cola alle orecchie. «Muoviti, puttana, devi farmi godere». […] È terribile sentirsi godere nella pancia delle bestie. Sto morendo. Riescono a dire: «Ci credono, non ci credono… facciamola scendere, sì, no…», vola un ceffone fra di loro e mi spengono una sigaretta qui, sul collo. Ecco, io lì credo di essere finalmente svenuta. Sento che mi stanno rivestendo, mi riveste quello che mi teneva da dietro, come se io fossi un bambino piccolo. Non sa come metterla con i lembi del mio golf tagliato, me li infila nei pantaloni e si lamenta. Si lamenta perché è l’unico che non abbia fatto l’amore, pardon, è l’unico che non si sia aperto i pantaloni. Mi mettono la giacca, mi spaccano gli occhiali e il camioncino si ferma per il tempo di farmi scendere. E se ne va. Mi chiudo la giacca sui seni scoperti. Dove sono? Al parco. Mi sento male, proprio nel senso che mi sento svenire e, non soltanto per il dolore in tutto il corpo, ma per la rabbia, per l’umiliazione, per lo schifo, per le mille sputate che mi son presa nel cervello. Per quello che mi sento uscire. Mi appoggio a un albero, mi fanno male anche i capelli. Certo, me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo una mano sulla faccia, è sporca di sangue. Alzo il bavero della giacca e vado, cammino, non so per quanto tempo. Non so dove sbattere, a casa no. A casa no. Poi, senza neanche accorgermene, mi ritrovo all’improvviso davanti al Palazzo della Questura. Sto appoggiata al muro della casa di fronte non so per quanto tempo a guardarmi quell’ingresso. Le persone che vanno e vengono, i poliziotti in divisa. Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora, penso alle domande, penso ai mezzi sorrisi. Penso e ci ripenso. Poi mi decido. Vado a casa, li denuncerò domani.
Franca Rame, Lo stupro