Il suo faccione campeggiava in bella mostra sui manifesti del PD alle ultime politiche, nonostante non passasse giorno in cui non rilasciasse dichiarazioni contro il modello di leadership individuale, il partito personale, l’uomo solo al comando.
All’avvicinarsi del congresso del PD l’ex segretario Bersani torna sul tema, a quanto pare, più per ostacolare l’ascesa di Renzi verso la segreteria che per aprire una vera riflessione sulla guida di quello che doveva essere il primo partito d’Italia.
È questa la cosa che, più di tutte, rende Renzi uguale a Berlusconi: essere additato come l’esempio peggiore della personalizzazione politica, cioè il male assoluto.
Una visione anacronistica, che finge di non vedere non solo un fenomeno che ha radici ben più profonde nello scenario della (comunicazione) politica italiana, me nemmeno i risultati elettorali: non è un caso se alle ultime politiche hanno ottenuto risultati migliori le forze politiche che hanno espresso una leadeship forte e sicura, cioè Berlusconi e Grillo. E guarda caso il partito che ha avuto il risultato peggiore rispetto alle aspettative è proprio quello che, al contrario, ha espresso una leadership debole e a tratti balbettante, per insicurezza o per eccesso di sicurezza.
Non significa inseguire le spinte più populiste, i capipopolo o il modello del padre-padrone ma nemmeno pensare di poter continuare a vivere fuori dal tempo.
La spettacolarizzazione, l’ostentazione del corpo fisico e simbolico del capo, la sovrapposizione del leader con il partito sono fenomeni ormai consolidati, velocizzati dalla tv prima e dai media digitali poi. Berlusconi è stato quello che meglio ha saputo sfruttare l’onda, in certi casi anche in maniera estrema; allo stesso modo Renzi ha capito che la sua leadership non può prescindere anche dalla sua persona, dal palco di Maria De Filippi al giubbotto di Fonzie-Renzie.
Ma la personalizzazione politica non l’hanno inventata né Berlusconi né Renzi. È un dato di fatto, frutto di fenomeni sociali, culturali, comunicativi, ma anche e soprattutto della debolezza della politica e dello sfaldamento dei grandi partiti di massa che hanno lasciato scoperti enormi spazi di rappresentanza che, soprattutto da tangentopoli in poi, solo singoli leader hanno saputo saputo colmare concentrandoli attorno alla propria figura.
Pensare di tornare a modelli di leadership collettiva è un’aspirazione legittima ma quanto plausibile o realizzabile? Non bisogna inseguire gli elettori ma cercare di guidarli, ovviamente. Ma pensare di farlo senza tener conto di dinamiche reali e non ideali sembra una pura posizione di principio.
Il punto vero è che questa dura battaglia contro la leadership forte, a prescindere dalle dinamiche spicciole del congresso, sembra appunto solo uno strumento di attacco politico all’avversario portato dall’esterno (Berlusconi), all’interno (Renzi) del partito. Sembra di rivedere le dinamiche che hanno caratterizzato le primarie per il candidato premier: una strategia, quella bersaniana, concentrata solo sul breve periodo, per contrastare l’avversario interno, senza nessuna visione politica o strategica di ampio respiro e di prospettiva.
Tant’è che le politiche, il PD di Bersani, le ha perse già durante le primarie, quando non ha contrapposto una proposta politica alla rottamazione di Renzi ma ha cercato di spingerlo sull’asse destra-sinistra, col teatrino delle regole che sapevano di colpo basso e contrapponendo al sindaco di Firenze un fuoco di fila portato avanti da bersaniani che sarebbero presto diventati simbolo della casta, fra poltrone ultradecennali e scorte col carrello.
Per vincere le primarie è servito, peccato che ha fatto fuggire chissà quanti elettori, anche di sinistra, verso l’onda di cambiamento rappresentata da Grillo.
Il risultato delle amministrative ha ridato fiato al PD, dopo il tracollo delle politiche, ma più che una vittoria del partito in sé sembra dovuta all’aver saputo esprimere delle leadership valide a livello locale, in molti casi scelte attraverso primarie davvero aperte e competitive.
Alla vigilia del congresso quindi, si sposti lo sguardo dal proprio ombellico e lo si punti sull’obiettivo complessivo, del partito e del Paese, che hanno bisogno di una leadership forte, moderna, sicura. Di un leader.
Poi la faccia sui manifesti il leader può pure non metterla. Purché la metta in tutto il resto.