Sono trascorsi più di trent’anni da quando Bernard-Marie Koltès, drammaturgo francese in perenne lotta con le barbarie sessuali e razziali, di linguaggio e classismo, scrisse Lotta di negro e cani, un copione che mentre scorre denso e lento sui conflitti di un campo di lavoro in Africa riproduce il ring mondiale delle origini delle guerre. Le presunte superiorità che incrociano orrori ammessi o commessi nel non volere mai sotterrare l’ascia della propria disumanità e il desiderio di possesso della carne aliena smascherano tirannie di tempo, luogo e azione.
L’anziano capocantiere Horn – un “tesoruccio” che non farebbe male a una mosca, a sentire la giovane parigina Léone trapiantata lì per sposarlo – affronta la morte di un operaio africano, freddato da un colpo di pistola di Cal, suo sottoposto, come una vergogna da seppellire insieme al suo cadavere introvabile. Il gioco delle responsabilità rimbalzate dall’uno all’altro e il primo colloquio con Alboury, il fratello e neo Antigone venuto a chiedere la restituzione di un corpo martoriato da affidare alla madre, si modellano su una schiera di condizioni che chiamano in causa anzitutto l’opposizione tra chi perseguita e chi subisce per effetto di una lingua che non verrà mai compresa e, proprio per questo, non potrà chiedere di meglio.
Alboury parla l’idioma e Horn grida perché non lo intende, i due si rincorrono senza mai far incontrare le diagonali, mentre Cal stuzzica la devozione al padrone ribadendo chi davvero osserva e vigila: i guardiani del cantiere, gli spettatori della terra invasa perché l’Africa, la colonia principe, cessi d’essere un buco nero e caotico e diventi riserva silenziosa e vuota che dà frutto e zittisce i ribelli colpendoli senza pietà e gettando le loro membra nelle fogne.
Nella bella traduzione di Valerio Magrelli, che dà respiro a una vicenda drammaturgica fortemente segnata da afflati poetici e tensioni verbali aspre, Lotta di negro e cani reca con sé un calco che un regista può scegliere se virare in realismo estremo o manifesto ideologico e sospeso, lontano dalle geografie e dalle rivalse etniche. La scelta di Renzo Martinelli e di un eccellente quartetto d’attori è di ricostruire il campo come un quadrilatero di ponteggi sui cui lati è disposto il pubblico a fare da guardiano di ciò che avviene in basso. Là dove i bianchi si rincorrono in mezzo al buio dando il fianco all’ossessione dello sperdimento, alle questioni di nervi e paura per cui l’omicidio di un fratello negro va gettato nell’oblio della disgrazia senza sicari da nominare.
La giustificazione si nasconde alle spalle del disonore che solo Horn paventa alla resa dei conti, i suoi occhi strabuzzati e il suo incedere pesante nel quadrato degli incarichi e di un matrimonio con Léone che mai avverrà hanno l’invadenza dei rumori che coprono tutto. Rimandano alla miseria di un cadavere rimosso di cui resta soltanto la sagoma disegnata, in attesa che altri giustiziati ne prendano il posto. Non basta che Alboury accarezzi il perimetro di un fratello senza volto, perché i dettami della guerra recitano con Cal: «per quanto ci si sforzi, la convivenza è difficile».
Diviene cioè impossibile portare giustizia nella paura, riavere testa e gambe interi. I soldi offerti da Horn sono la lingua che il negro non capisce e il bianco si ostina a insegnare. Gli odori differiscono come i microbi dell’uno e dell’altro e, se Léone crede di amare Alboury perché è l’unico che la guarda da sotto le costruzioni e gli scavi, ne riceve uno sputo, un abbandono da aggiungere alla lista. Non serve provarsi in altre lingue, né piangere o assumere farmaci per le proprie nevrosi: la smania della pistola in tasca è il dovere facile di chi comanda.
Ecco perché le luci sono perennemente basse, per lasciare alle torce da cantiere una cornice sporca, indefinita e senza ossigeno, tipica di chi risolve in fretta i problemi. Cal e il suo assassinio, ancora per poco impunito, sono la capra nella tana del leone, il duello della razza su cui «si è sputato da tempo». E davvero non c’è modo di riabilitarsi, perché il crimine inemendabile si sfracella in vendette, partenze senza ritorno, occhi fissi sul bottino di guerra e baratti sessuali. Restano un cane che ha perso la strada e una madre con il coraggio di varcare il quadrilatero del campo, il suo caos assordante e quella polvere che fa esplodere fuochi d’artificio attorno alla morte da onorare almeno in preghiera.
Fino al 17 giugno 2013
Teatro i (produzione 2012)
LOTTA DI NEGRO E CANI
di Bernard-Marie Koltès
traduzione di Valerio Magrelli
drammaturgia di Francesca Garolla
regia e scene di Renzo Martinelli
con Alberto Astorri, Rosario Lisma, Alfie Nze e Valentina Picello
luci Luigi Biondi
in collaborazione con Face à Face – Parole di Francia per Scene d’Italia e Institut Français Milano