“Most moms have this one little hang-up: they want to see their children awake. Increasingly, many fathers do, too.” (da “Why men work so many hours“, su Harvard Business Review)
Vi è mai capitato di parlare con un neoassunto in una grande azienda, o in una società di consulenza di quelle che fanno quasi paura, quelle che al primo colloquio ti chiedono quanti litri di benzina si consumano a Bologna in un anno o quanti Big Mac si mangiano in un mese a Parigi? Provateci. Chiedetegli quanto ha intenzione di fermarsi in ufficio. Chiedetegli quanti straordinari ha intenzione di fare (domanda fra l’altro inutile, perché a tantissimi neolauerati gli straordinari non vengono nemmeno pagati). Probabilmente vi dirà che – soprattutto all’inizio – si fermerà molto oltre l’orario prestabilito.
Come dargli torto. Nei miei primi 8 anni di lavoro non sono mai uscita dopo 8 ore esatte. Mai. Ma la cosa più incredibile – a pensarci ora – è che mi sembrava perfettamente normale uscire alle 19, alle 20, persino alle 21.
E prima di diventare mamma non mi ha mai sfiorata l’idea che potesse non essere giusto. Che per lavorare nel marketing forse fosse meglio andare a osservare il mondo. Che se stai davanti a uno schermo per 12 ore al giorno, probabilmente ti verrano sempre meno idee.
Ma anche dopo essere diventata mamma, e con tutte le mie idee sulla conciliazione in testa: un giorno ero alla macchinetta del caffè con un ragazzo appena assunto, il quale, sorprendentemente, mi ha detto «Io, se finisco il mio lavoro, se raggiungo il mio obiettivo, alle 17.30, massimo 18.00, esco». Invece di dirgli «bravo, fai bene», mi è venuto spontaneo dirgli di stare attento, di fermarsi un po’ di più, almeno all’inizio, che non era giusto ma purtroppo era naturale che i suoi capi guardassero quanto si sarebbe fermato alla scrivania.
E ho sbagliato, ovviamente. Avrei dovuto dirgli di continuare così, di dare il massimo in quelle 8 ore, di dimostrare di essere il più bravo e di andare a godersi lavita, dopo.
Nell’articolo dell’HBR si parla di eroismo. E si spiega unconcetto fondamentale, secondo il quale per alcune persone dedicare tutta la vita al lavoro, passare molte più ore del dovuto in ufficio, pensare costantemente agli obiettivi, fino a mal sopportare le vacanze, è uno status. È un modo per dimostrare di avercela fatta, o almeno, di voler arrivare a quella cima lassù. È un modo per sentirsi eroi del nostro tempo: io resto in ufficio 12 ore al giorno, penso sempre al lavoro, è come se portassi avanti il mondo.
Capita. Eccome se capita. Soprattutto nelle grandi aziende, nei grandi studi, nelle grandi agenzie. E non per colpa dei singoli, ma per colpa della mentalità comune.
E allora mi faccio una piccola domanda: se tutti, donne e uomini, continueremo a pensare di portare avanti il mondo lanciando il nuovo prodotto per la pulizia del bagno, o studiando la nuova pubblicità di tv a schermo piatto, e se continueremo a pensare che questo debba passare attraverso 12 ore rivettati alla scrivania davanti a un pc, allora il mondo vero, quello fatto di occhietti profondi, mani piccole e morbide, di cervelli e cuori bisognosi di attenzioni e racconti, quel mondo che rappresenta il nostro vero futuro, quello che chiamiamo figli, chi lo farà crescere?
E allora, soprattutto, chi saranno i veri eroi?