Le parole sono importanti. Soprattutto se sono quelle del tuo avversario politico di una vita.
E invece, come se niente fosse, il primo atto significativo di questo governo di larghe intese ma a guida PD viene battezzato “Decreto del Fare”.
Il frame del fare, eccetto la parentesi velocemente tramontata di “Fare per fermare il declino” di Oscar Giannino, è sempre stato il marchio di fabbrica di Silvio Berlusconi, la natura stessa della sua discesa in politica. Indimenticabile lo spot, è il 1999, dove vengono esaltati i suoi successi da imprenditore: il saper fare e il poter fare caratterizzano la sua electability come un elemento di novità sulla scena politica italiana. Alle chiacchiere dei politici il primo Berlusconi contrappone la competenza fondata sull’azione e sulle soluzioni dell’imprenditore che dall’alto della sua posizione decide di trasformare il Paese nell’Azienda Italia.
Sono passati vent’anni, la maggior parte dei quali governati proprio da Berlusconi, il modello dell’imprenditore-politico si è molto appannato, ma quel frame rimane comunque una prerogativa berlusconiana.
E invece tra tutti i nomi possibili il Governo Letta decide di utilizzare proprio il frame dell’alleato-avversario.
La questione può sembrare secondaria o di pura forma, ma mai come in questo caso la forma è sostanza, soprattutto se sei stretto in un abbraccio comunicativamente mortale con colui che hai combattuto per vent’anni. Perché non basta fare le cose, bisogna trasformarle in capitale politico e comunicativo attraverso una narrazione coerente ed efficace. Cosa che al Pd finora non è riuscita, costretto ad inseguire soprattutto sui temi economici l’agenda dettata da Berlusconi. Il decreto del fare, infatti, rinforza la narrazione berlusconiana prima ancora che quella del Presidente Letta, che anzi, schiacciato nell’angolo della responsabilità, lascia ampi spazi comunicativi all’ex premier per giocare d’attacco, come sullo sforamento del 3% del deficit e sui rapporti con l’UE.
In fondo sta succedendo quello che è successo in campagna elettorale, quando il PD di Bersani premier in pectore, non ha saputo prendere una posizione chiara sulla discontinuità dal governo Monti proprio in nome della responsabilità, mentre Berlusconi con un’abile mossa comunicativa ne ha preso le distanze ed ha spinto sull’acceleratore, arrivando al culmine della sua strategia con la promessa della restituzione dell’IMU.
A quattro mesi di distanza, con un nuovo segretario ed un nuovo governo di mezzo, lo schema non sembra essere cambiato. I berluscones rivendicano la natura fattiva del primo decreto importante dell’esecutivo come a dire “se non ci fossimo stati noi…”, Berlusconi stringe a sé il PD sapendo che in questo modo può continuare a sparare alto per poi dare la colpa delle scelte impopolari ai democrat, come nel caso dell’Iva su cui il Ministro Zanonato è costretto a prendere tempo, offrendo il fianco ai colpi incrociati dei suoi stessi colleghi di governo del PDL.
La responsabilità non è un disvalore in sé, anzi, ma in una crisi economica come quella attuale appare debole e subordinato al frame del fare, soprattutto se Berlusconi lo declina abilmente come una rottura degli schemi e delle regole per favorire l’economia italiana, gli imprenditori, ecc. Il tutto usando il PD come scudo umano.
Per uscire dall’angolo il Partito Democratico non deve diventare (comunicativamente) irresponsabile ma deve provare a proporre una propria narrazione in grado di superare il concetto di responsabilità verso una chiave fattiva e di risposte ai problemi.
Perché non basta usare una parola per impossessarsi del frame dell’avversario. Soprattutto se questo si chiama S.B.