MarginiGiancarlo Loffarelli, tra filosofia e teatro

Aveva poco più di ventiquattro anni quando lo conobbi. Era mio professore, ma non di filosofia, di religione a scuola. Eppure è stata per me un'esperienza autenticamente filosofica quella che lui ...

Aveva poco più di ventiquattro anni quando lo conobbi. Era mio professore, ma non di filosofia, di religione a scuola. Eppure è stata per me un’esperienza autenticamente filosofica quella che lui mi trasmise, la passione per il dialogo, per l’argomentazione, l’apertura di quadri interpretativi che mi hanno indubbiamente ispirato. Ma Giancarlo Loffarelli, che ora insegna filosofia e storia, è anche un drammaturgo, uno scrittore e un regista teatrale, oltre che attore. E meriterebbe di essere molto più noto di quanto lo sia, se il nostro Paese fosse più attento alla vera cultura e meno ad altre bagattelle, che tanto invece appassionano le gazzette…. Per quel poco che posso dirne, è stato un mio maestro. E’ quindi con grande riconoscenza che accolgo la sua disponibilità a rispondere alle mie domande.

Caro Giancarlo, puoi presentarti brevemente?

Mi sono laureato in Filosofia e poi in Lettere con indirizzo in Discipline dello spettacolo. In entrambi i casi presso l’Università di Roma “La Sapienza”. La filosofia e il teatro costituiscono da sempre i mondi in cui sono vissuto. Entrambi, fra l’altro, costituiscono ciò che mi dà da vivere: la filosofia con l’insegnamento nel Liceo classico che ho dapprima frequentato come alunno e ora come docente; il teatro con la Compagnia che ho fondato nel 1979, quando avevo diciotto anni. Scrivo testi teatrali e nel 2012 sono stato uno dei drammaturghi italiani che ha fondato il Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea (CENDIC). Il contatto più diretto fra filosofia e teatro, probabilmente, l’ho sperimentato quando, alcuni anni fa, scrissi un testo (con il quale ho ottenuto un riconoscimento al Premio “Vallecorsi” di Pistoia) dal titolo Una storia da lontano sulla complessa vicenda del rapporto fra Hannah Arendt e Martin Heidegger.

Sei stato mio professore al liceo, vediamo innanzitutto cosa è per te l’insegnamento.

L’insegnamento, per me, è un modo per non essere soltanto spettatori della storia. Ce ne sono altri, ovviamente, e diversissimi fra loro (avere figli, produrre arte, fare politica, accoltellare qualcuno…), ma da un po’ di tempo a questa parte sento per me congeniale in maniera eminente contribuire alla crescita di giovani proponendo loro criteri di scelta e di orientamento nel mondo che per me sono importanti al fine di lasciare le cose un po’ meglio di come le ho trovate. Credo che tutti concordino nel rilevare che le cose, in molteplici settori, non vadano come si vorrebbe. Di fronte a questa banalissima considerazione, si può reagire pensando che nulla si possa fare per modificare qualcosa o, al contrario, credere che ci si possa impegnare per cambiare. Nella maggior parte dei casi, chi è convinto di questa seconda ipotesi, pensa che i cambiamenti possano essere diretti e veloci. Io mi sto convincendo sempre più che i cambiamenti più profondi e duraturi li si possa produrre soltanto in maniera lenta e indiretta. Ritengo che l’insegnamento, l’e-ducare nel senso più originario del termine, sia una delle strade più efficaci. Peccato che non si viva sufficientemente a lungo per vederne gli effetti!

E la filosofia?

La filosofia è ciò che si trova nascosto nella parola stessa perché troppo evidente: cercare di saper gustare la vita. Cos’altro significa ”filìa” se non ricerca, tensione verso qualcosa? E “sofìa”, “sàpere”, non semplice conoscenza ma capacità di gustare. Purtroppo ho l’impressione che gli ambienti accademici abbiano fatto di tutto per trasformarla in altro e io non credo che, circa la filosofia, possano esistere, per così dire, mezze misure: o è indispensabile per la vita o non serve ad alcunché. Ne ho una conferma quotidiana nel rapporto con i miei alunni: se non riesco a far sperimentare loro che la comprensione della parola “spirito” in Hegel è fondamentale per la loro vita, è una totale perdita di tempo che debbano dedicare tre ore settimanali della loro vita ad ascoltare le mie spiegazioni. Quando cominciai a lavorare alla mia tesi di laurea in Filosofia teoretica (ero al secondo anno di corso) credevo che dire “teoretica” significasse occuparsi di quanto più lontano vi fosse dalla “vita di tutti i giorni” e mi sembrava così nobile non avere di queste preoccupazioni. Furono due anni di lavoro che capovolsero, letteralmente, le mie ingenue certezze. Considero una missione aiutare i miei allievi a non cadere nella stessa ingenuità.

E il rapporto tra autobiografia e filosofia?

Un rapporto inscindibile. Proprio per quanto dicevo circa la natura della filosofia, a mio avviso la filosofia è una scrittura sulla propria vita, una ri-flessione. Se guardo al mio percorso filosofico, lo vedo profondamente intrecciato alla mia vita, al mio carattere, ai miei incontri, alle mie passioni. Quando dico intrecciato intendo proprio che non riuscirei a comprendere cosa ha determinato cosa. So, per esempio, che il mio modo d’intendere il calcio nell’atto del praticarlo è profondamente legato a Heidegger, ma non saprei dire se pratico il calcio in un certo modo perché influenzato da Heidegger o se abbia cominciato a frequentare Heidegger perché intendo il calcio in un certo modo.

Ti occupi di teatro: quanto dei tuoi studi filosofici entra nel teatro? Quale rapporto c’è tra le due cose?

Non c’è soluzione di continuità. Considero Čechov uno dei miei massimi riferimenti filosofici e Gadamer una delle fonti maggiori d’ispirazione per la mia attività drammaturgica. Spesso sperimento degli incroci ricchi di stimoli, come quando ho portato in scena Bianche statue contro il nero abisso, una mia lettura nietzschiana di Pirandello. Ma, più in generale, nel teatro sperimento continuamente l’assenza, perché ciò che realmente è presentato sulla scena è ciò che è assente, osceno, proprio nel senso che è fuori della scena, come la tragedia greca ha insegnato a tutto l’Occidente.

Quali libri filosofici sono importanti per la tua vita? E quali consiglieresti di leggere a una persona che si avvicini al pensiero?

Li elenco in ordine cronologico: Critica del Giudizio, La Fenomenologia dello Spirito, La gaia scienza, Essere e tempo, Verità e metodo. Ho cominciato a studiare il tedesco, al tempo dei miei studi universitari, per poterli leggere in lingua. Ma nessuno di questi consiglierei a chi comincia un percorso, al quale, invece, consiglierei le Confessioni di Agostino.

A cosa stai lavorando in questo periodo?

Sto per terminare un romanzo scritto in forma diaristica dal titolo Io sono un ermeneuta. Diario postumo di un docente di scuola superiore in cui racconto un anno di vita (dal 31 agosto al 31 agosto dell’anno successivo) di un insegnante. Se penso che sono entrato nel mondo della scuola il primo ottobre del 1967, a sei anni, in prima elementare; ho terminato la mia carriera di alunno il 17 luglio 1980, il giorno in cui ho sostenuto il colloquio per quello che, allora, si chiamava Esame di Maturità; qualche mese dopo, nel marzo del 1981 ho iniziato la mia prima supplenza in una scuola superiore e, da quel momento, non ho più smesso d’insegnare; se penso a tutto questo, dicevo, mi accorgo che la scuola non è il mio lavoro ma la mia vita. In questo romanzo ho provato a condensare in un anno di scuola questa esperienza di vita.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club