CineteatroraLa compravendita oltre Dio, i padri, la bellezza

C’è chi trema seduto su un divano di pelle chiara e calpestata rialzandosi solo per sbattere contro un muro e rifare in loop lo stesso percorso, c’è chi siede a terra mangiando, chi sta accucciato ...

C’è chi trema seduto su un divano di pelle chiara e calpestata rialzandosi solo per sbattere contro un muro e rifare in loop lo stesso percorso, c’è chi siede a terra mangiando, chi sta accucciato in un angolo col capo coperto per qualche vergogna, chi osserva fisso con aria di sfida o attesa complice della noia. La scrittura di Mark Ravenhill e del suo esordio scenico nel 1996 con Shopping and fucking non lascia scampo a intermezzi, getta negli occhi il fumo delle risalite impossibili, il guasto del vendere e vendersi, l’opinione riciclata e mai morta del denaro che sopravvive alle vite, alle bellezze e ai credo, se esistono e ci appartengono con provato timore reverenziale.
Le scene si scalzano l’un l’altra, da un appartamento anonimo e caotico a un monolocale asfittico e malato di profferte, da un pub di bevute e trattative violente a un camerino di prova e al provino televisivo che spoglia corpi e dignità. Le piccole storie di Mark, Robbie, Lulu, Brian e Gary rincorrono la materia più spinosa e ardua da maneggiare, quella che fa del replicante sessuale la metafora dell’omologarsi senza distinguere più il grido della coscienza e del sentimento, utopie ridicole e pericolose in un contagio distruttivo. C’è il vagabondaggio del tossico tra due giovinetti comprati al supermercato perché non valevano nulla e lo sproloquio del boss di traffici loschi sulla vera bibbia dell’investire e guadagnare per uno strano gusto di civiltà bislacca. E c’è lo struggimento morboso, l’ansia da prestazione, l’ironia delle misure con gli echi e le derive di chi ricorda con rabbia.
La regia di Ferdinando Bruni pone al fondo una lavagna su cui alternativamente i protagonisti cancellano e appongono a gesso i cambi scena, le ambientazioni malsane, il crescendo che fa precipitare le stanze l’una nell’altra, così come deflagra presto la perversione di un minorenne vittima di un abuso e carnefice di se stesso mentre invoca pratiche sessuali barbare, le uniche che abbia imparato a riconoscere. Non si tratta di un copione usurato, ma di una scena scomposta dove ogni appendiabiti, ogni microonde per scaldare cibo preconfezionato, ogni video invisibile o musica dei primi Novanta persiste alle spalle della drammaturgia e di una condizione di resa o rialzo bloccato dai vuoti a perdere.
I ruoli, le pedine del gioco con gli occhi fragili e la mollezza disperante di un corpo d’attori, davvero bravi a barattare leve di forza a ritmo serrato, ricalcano la marzialità asettica dell’oggi e il senso antico del dire per effetto di un possesso o di un asservimento al padrone. Si riaprono ferite a ogni battuta, se ne cancellano e provocano altre con atti cruenti e ripiegamenti languidi. Tutto sussiste e vaga senza soluzione nel tremore di Mark fuori e dentro crisi di astinenza, nell’amore maldestro di Robbie per lui e di Lulu per Robbie, ognuno complice di abbandoni e rancori dolenti. E, da questo labirinto, non si estromettono scommesse, occasioni di rendita o sconfitta per soddisfare e soddisfarsi del poco che genera devastanti dipendenze emotive.
Non c’è pausa in Ravenhill, come non esisteva tregua nella ballata feroce dei monologhi di Sarah Kane. Si ammette la satira come incapacità di aspirare al meglio senza mai poterlo nemmeno sfiorare: in penombra resiste la falsa commozione del capo Brian, padre e sfruttatore di chi è abituato a essere suo schiavo senza possedere altra faccia che quella del cliente. Chi non è degno della prova e non supera il test della resistenza è fuori dalla storia, va annientato e torturato. Lo stesso, chi non accetta la compravendita seriale è destinato a piegare la schiena a unioni senza futuro.
Di quella rottura di ossa e fine del coraggio, di quel cerchio che irrimediabilmente si apre e si chiude su confessioni sboccate e aberrazioni, il gesto e la voce di chi se ne fa manifesto in scena mostrano la trasparenza orribile della caduta: la compulsione che fischia nella carne e nella ragione, che esclude il confine tra chi è degno e indegno fino a sporcare le anime già preda del mordersi la coda e di ricatti morali. La guerra dei mondi di Ravenhill-Bruni non si distoglie mai dalla perdita e la sua apocalisse è un’arma facile da acquistare su un pianeta di identità inquinate.

Fino al 29 giugno 2013

Teatro Elfo Puccini Milano

Shopping & fucking
di Mark Ravenhill
traduzione di Barbara Nativi
regia di Ferdinando Bruni
con Ferdinando Bruni, Alessandro Rugnone, Camilla Semino Favro, Vincenzo Giordano, Gabriele Portoghese
luci di Nando Frigerio
suono di Luca De Marinis
produzione Teatro dell’Elfo con il contributo di Next – Laboratorio delle idee per Oltre il Palcoscenico

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