BelfagorL’elezione diretta del presidente

Ci si arriverà? Non ci si arriverà? Almeno se ne comincia a parlare e per la prima volta con tanta chiarezza voci autorevoli nel centrosinistra vedono l’elezione diretta del presidente della Repubb...

Ci si arriverà? Non ci si arriverà? Almeno se ne comincia a parlare e per la prima volta con tanta chiarezza voci autorevoli nel centrosinistra vedono l’elezione diretta del presidente della Repubblica come una ipotesi da prendere in seria considerazione. Voci autorevoli? Il presidente del Consiglio prima di tutto si è espresso in questo senso a Trento:

’La settimana vissuta a metà aprile per l’elezione del Capo dello Stato – ha ricordato Enrico Letta – con le regole della costituzione vigente è stata drammatica per la nostra democrazia”. “La fatica della nostra democrazia – ha aggiunto – è emersa lì; tuttavia non credo potremmo più eleggere il Presidente della Repubblica in quel modo lì, perché assegnare questa elezione a mille persone non è più possibile”. “Non credo che spetti a me dire quale dovrà essere il modello per la prossima riforma costituzionale. Dobbiamo però rendere possibile che in Italia se ne tratti e lo faremo”, ha concluso, ricordando che “è cambiata la democrazia rappresentativa”. (Huffington Post)

E poi c’è stato l’intervento di Romano Prodi con un articolo sul Messaggero del 30 maggio: l’ex presidente del Consiglio ha voluto ribadire la necessità di un sistema elettorale «capace di dare al Paese un governo forte e stabile». Sulla risposta più adatta, ha mostrato di non avere dubbi: è «il doppio turno alla francese, semipresidenzialismo compreso». «Se avessimo adottato in passato una legge elettorale di questo tipo – è stata la sua valutazione -, l’Italia sarebbe oggi all’avanguardia tra i Paesi europei e non perennemente sull’orlo del baratro».

Così sono partite subito le dichiarazioni in senso contrario. Non nuove, queste, ma formulate da difensori ben noti dell’attuale regime parlamentare a esecutivo debole. I parlamentaristi: il problema per loro sta tutto nella difesa delle assemblee elettive e del pluralismo. Quello che conta è il dibattito, altra cosa è risultato che dovrebbe produrre in termini di decisioni assunte; il nostro sistema politico non brilla per efficienza produttiva, ma il rispetto della volontà popolare sembra riguardare solo le garanzie. Il semipresidenzialismo condurrebbe secondo Mario Dogliani per esempio a cancellare la mediazione politica del pluralismo e a sospendere il controllo politico (parlamentare e sociale) tra un’elezione e l’altra. Nientemeno. L’esito negativo al momento è un rischio più che una certezza, per la verità: e se sia tanto forte da sconsigliare qualsiasi tentativo di riforma è tutto da vedere.

Ma quali sono poi i rimedi che il professor Dogliani propone al posto delle modifiche nell’impianto della Costituzione? Eccoli: “si deve operare in primo luogo culturalmente e politicamente sui partiti, per restaurare la loro funzione storicamente e costituzionalmente propria, e in secondo luogo si deve offrire loro una arena di scontro delle reciproche posizioni, necessariamente plurali e dunque necessariamente divergenti, e un luogo di esercizio di responsabilità per la necessaria mediazione” (l’Unità, 2 giugno 2013). Come dire che si dovrebbe tornare al tempo dei partiti organizzati e ramificati nella società. E che poi il ruolo della politica non sia quello di decidere a un certo punto, ma solo di mediare responsabilmente tra visioni e interessi in conflitto.

Quanto è probabile un ritorno al predominio dei partiti come strutture socialmente rappresentative? E quanto è forte il rischio di un regime semipresidenziale che si risolva in una ulteriore mortificazione della volontà popolare? Su questo varrebbe la pena di ragionare e riflettere, senza dare nulla per scontato. Le semplificazioni non aiutano: pluralismo da una parte, efficienza decisionale dall’altra. Il regime parlamentare puro presenta svantaggi ai quali non è possibile porre rimedio con generici appelli alla buona volontà dei singoli cittadini. I difensori del sistema esistente si richiamano a un suo diverso funzionamento in tempi passati. I riformatori credono un po’ troppo nelle virtù salvifiche di nuove regole. Sarebbe meglio passare a una discussione meno schizofrenica. Sarebbe utile vedere quanto e come le opposte esigenze siano conciliabili. Il regime semipresidenziale pone il problema dei contrappesi. Di questo sarebbe importante discutere. Paventare i rischi legati alla novità, senza mettere mano alle regole, è invece il modo migliore per lasciare inalterati gli evidenti difetti del sistema attuale. Poi non basta cambiare le regole, certo. I problemi complessi non hanno soluzioni semplici. Anche dal lato del costume c’è molto da fare; se vogliamo restituire dignità alla politica dobbiamo cambiare gran parte degli attori e introdurre e far valere altri criteri di giudizio. L’abilità nella caccia al consenso è diventata l’arma assoluta, mentre la competenza, o la cultura di governo se si preferisce, non ha ancora ritrovato tutto il peso che merita.

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