Qualcuno ha mai chiesto ai tori di Pamplona se hanno davvero voglia di partecipare alla festa di San Firmino?
Temo di no.
Perché la cosa è persino banale: non è visibile una sofferenza indicibile negli occhi di quegli animali?
Ma c’è bisogno di essere tacciati di animalisti (che resta comunque un bel complimento) calandosi nei panni di queste creature costrette e correre in un baccano infernale, spintonate, pungolate, provocate per il pubblico ludibrio?
Notiamo come cambia la festa se capovolgiamo la situazione: prendono me, un bel mattino di luglio, mi schiaffano sugli acciottolati della cittadina dove vivo e a un certo punto mi rendo conto che migliaia di tori vestiti di bianco mi gridano addosso perché, come un folle, mi metta a inseguirli e incornarli (nel mio caso, a sferrare testate alle cieca, manate random, calci estemporanei).
Io sfido chiunque a mettersi nei panni di questa creatura braccata.
Essere braccati.
Si è braccati nelle guerre; la gente si è trovata braccata sotto le dittature, nelle ingiuste carcerazioni, nei conflitti. Si è braccati di fronte alla follia, alla violenza improvvisa.
Ma per una festa? Di che festa si tratta, condita di grida e sangue?
Mi dicono: è una tradizione.
Bene: che tradizione è quella in cui si prende un animale, che ha cuore, occhi, emozioni, nervi, sente dolore fisico e psichico, sente paura, lo si prende e lo si fa sentire braccato e quindi lo si costringe a difendersi, a menare, a incornare, e infine, spesso, a morire.
Ma dove siamo? Nella Linguadoca del 1200? Ma chi c’è ancora in circolazione, il tribuno Lucullo?
Guardiamo negli occhi il Toro, e vergogniamoci di non avere altro di più nobile da fare, o perlomeno qualcosa che non rechi dolore a un innocente.
Ho letto un titolo sul web: «Corsa dei tori a Pamplona, tragedia sfiorata».
Sbagliato: la tragedia c’è stata, si è consumata sulla pelle di chi non ha voce per dire, se fosse stato interpellato: no grazie, preferisco non partecipare alla “festa”. Firmato: il toro.