Due estati fa ho convissuto, per giorni, con le macabre immagini della strage di Utøya, con quei volti annichiliti dal terrore e quelle maschere di disperazione offerte agli obiettivi dell’incredulità mondiale. Temo che gran parte del prurito che ha innescato il mio impegno nasca proprio in quegli istanti.
Mi sentivo immerso in un disastro e quasi mi vergognavo, io qui al riparo, ad arrogarmi il diritto dell’aggettivazione; se mai il silenzio potesse essere la preghiera più sincera: questo mi chiedevo. Non credevo tuttavia che la misura della mia sofferenza potesse essere l’empatia, e mi spiego: l’indignazione e le lacrime non erano frutto di una scontata solidarietà generazionale né di una forma di sciatta colleganza. Ho taciuto per giorni, perché troppe penne si esercitavano sul palco del banale e forse anche per provare a metabolizzare l’eccidio. Ho letto le storie dei giovani laburisti impegnati nei lavori del campus estivo, spulciato gli sms che – in preda al panico – hanno inviato ai propri genitori o, ancora, alle forze dell’ordine. Ho sospirato di fronte alle imbarazzanti dichiarazioni di noti editorialisti altruisti ed abbozzato al cospetto dei deliri integralisti di alcuni nostri (?) eurodeputati, ho sorriso di fronte alle papere dell’informazione zeppa di pregiudizi che già aveva un mostro bell’e pronto da sbattere in prima pagina. Ho riflettuto a lungo, non che ora ne sia venuto a capo, questo no, ma ci ho provato: ecco. L’azione dell’omicida norvegese – son convinto – non può essere imputata alla mera follia di un terrorista mezzo nazista. Prima che il disastro scandinavo venisse sommerso dall’indifferenza estiva che tipicamente annebbia le menti più scalmanate, mi son chiesto perché mai quel tizio biondo identificasse un’intera generazione con la più terribile minaccia alle granitiche certezze del suo Paese. Intanto, mi ha soprattutto stupito la fermezza dei rappresentanti delle istituzioni norvegesi, mi ha commosso il discorso del premier Jens Stoltenberg – un autentico canto d’amore recitato nel deserto dei sorrisi – che ho provato a mandare a memoria:
“Voglio dire questo a tutti i giovani raccolti qui. Il massacro di Utøya è stato un attacco contro il sogno dei giovani di rendere il mondo un posto migliore. I vostri sogni sono stati interrotti bruscamente. Ma i vostri sogni possono essere esauditi. Potete tenere vivo lo spirito di questa sera. Voi potete fare la differenza. Fatelo…! Ho una semplice richiesta per voi. Cercate di essere coinvolti. Di interessarvi. Unitevi a una associazione. Partecipate ai dibattiti. Andate a votare. Le elezioni libere sono il gioiello di quella corona che è la democrazia. Partecipando, voi state pronunciando un sì pieno alla democrazia”.
Mi son detto: non c’è null’altro da ticchettare sulla tastiera, ha fatto tutto lui: benedetto sempre sia il suo eloquio. Pensare che queste parole vibranti e sincere fanno il paio con la dichiarazione immediatamente successiva alla catastrofe: “al male reagiremo con più democrazia e più umanità”. Capito? Ecco: provate voi, se ci riuscite, in momenti così angosciosi e farneticanti a chiedere più cautela e più partecipazione contro la spirale di violenza in cui il vostro Paese pare avviluppato (e – fateci caso – non è che qui si tenti di esportarla, la democrazia, al più di importarla). Salite sul podio, o ancora sulla sedia ove poltrite, improvvisate un’orazione ed offrite il panorama rassicurante del sogno a chi si è appena risvegliato da un incubo cruento. Provate, se ci riuscite, ad ignorare l’eccentrico grido della foresta antropomorfa che vorrebbe quel dannato impalato nella pubblica piazza, sottoposto – previo processo sommario – al civile linciaggio dei concittadini esasperati. Provateci. Ma non è di abissi culturali che vorrei oggi parlarvi, preferisco piuttosto testimoniare la fierezza e lo strazio per quelle vittime innocenti («vittime innocenti», ora che ci penso, è una tra le espressioni da rotocalco che più mi tormentano: ma insomma, ci siamo capiti). Sterminare, in preda ad una lucida pazzia, ragazze e ragazzi impegnati nell’associazionismo, nel sindacalismo precoce, nei partiti versione bonsai è un attentato al destino d’Europa, quel continente troppo vecchio: per ragioni anagrafiche più che storiche. È come piazzare un ordigno sotto il portone del futuro e farlo brillare, in un tonfo sordo. La qual cosa preoccupa, e fin qui vi si sta declamando un’elegia del mediocre, e – in più – inorgoglisce. Essere sotto tiro è, per noi, un onore.
Mi spiego: non mi sono mai sentito tanto importante; da quando Breivik ci messo sotto attacco. È la volta buona che, fracassata l’armatura dell’indifferenza, s’ingaggi una lotta disarmata con le nostre responsabilità, con le nostre occasioni perse, con la nostra pigrizia, con l’analfabetismo delle nostre emozioni. È la volta buona che si rinuncia pure a quel dannato alibi che è la giovinezza. Il fatto di esser stati per un attimo catapultati all’interno di quel vuoto nero che è la morte ci deve aver messo una certa urgenza. È urgenza di reagire, di colmare il vuoto di credibilità dei valori di un continente, di rafforzare l’architettura politica della nostra casa comune con generose colate di cemento fresco. Come se in quegl’inaccessibili Palazzi barocchi si fossero arroccate decine di cecchini pronti a far fuoco sui nostri sogni di gloria, come se un mare gelido – dove la navigazione è interdetta pure alle scialuppe di salvataggio dei vacanzieri sulla sponda opposta – si fosse aperto sotto i nostri piedi, come se – sterminando un nostro contingente di stanza nelle più riformiste democrazie costituzionali – quel Breivik lì ci avesse d’un tratto drogati di vita. Fatte le valigie, ci siamo in molti trasferiti su quell’isola. Già che ci siamo, trasformiamola in un arcipelago: edifichiamo ponti e facilitiamo le comunicazioni. Invadiamo ogni spazio, smantelliamo le trincee. Di questa Rete (che non è trappola ma rifugio, e mai immagine fu più appropriata) apprezziamo i nodi, gli incroci pericolosi del nostro attivismo pulito. Chi pensa che un mucchio fucilate valga da monito, s’arrenda all’ineluttabile sconfitta. Se lo appunti sul suo diario delirante, ne faccia la copertina del personalissimo Mein Kampf: i volenterosi “interessati a cambiare le cose” sono una minaccia. Una terribile risorsa per questo avvenire in cui non so bene se voi, assassini di speranza, siate stati invitati. Di certo, non siete i benvenuti.