Il Partito democratico è giovane, ha solo sei anni, certe cose non le sa. Non sa, ad esempio, che se voti più o meno compattamente contro la mozione di sfiducia personale ad Alfano – diventata, con l’intervento del premier Letta, de facto una sfiducia all’esecutivo – il tuo capogruppo in Aula, Zanda, non dovrebbe dire:
Signor ministro, forse potrebbe essere utile valutare se nelle 24 ore della sua giornata ci sia abbastanza tempo per la segreteria del suo partito, il ministero dell’Interno e il ruolo di vice presidente del consiglio
Altrimenti il posizionamento del partito non è del tutto chiaro e inattaccabile.
L’intervento di un Enrico Letta logorato dalle magagne del suo governo, a Palazzo Madama, ha parlato di una «inoppugnabile estraneità di Alfano», ma su Repubblica Bonini e Tonacci smontano le ricostruzioni innocentiste, citando un cablogramma con un ordine ben preciso arrivato da Astana lo scorso 28 maggio: «Deportate Alma Shalabayeva».
Nel frattempo il gruppo del “no” al governo salda sempre più il suo legame con la base: Civati, Puppato, Tocci, Casson, alcuni dei quali polemicamente astenutisi dalla votazione sul ministro degli Interni, sanno che il governo non uscirà indenne da questa pessima figura, e il fronte delle larghe intese non è compatto come prima.
Il Presidente Napolitano – comprensibilmente, verrebbe da dire, visto in che termini è stato supplicato di accettare un secondo mandato – si è pronunciato a favore della continuazione dei lavori del governissimo, dichiarando che «se cade Letta avremo contraccolpi irrecuperabili».
In tutto questo marasma di posizionamenti, arroccamenti, difese d’ufficio, opportunismi e accuse, tra l’altro, ci sono fazioni perennemente in lotta per il Congresso del Partito democratico. Una lotta senza esclusione di colpi, a giudicare dai toni usati da attivisti, attivistini, aspiranti spin doctor e semplici groupie dei vari candidati. Se non fosse già abbastanza trovarsi in caduta libera con un governo del genere, ecco i tribuni del popolo che, col dito ben teso, indicano a ritmo serrato i veri colpevoli del decadimento che stiamo vivendo.
Uno dei destinatari principali di accuse e mugugni, nemmeno a dirlo, è Matteo Renzi, che giorno dopo giorno si districa in polemichette create ad hoc (come quella del suo incontro con Angela Merkel, che per molti sedicenti pensatori sarebbe stato un atto di tracotanza, perlomeno finché la stessa Merkel non ha rivelato di averlo invitato) e Chiare Geloni che, non paghe dei successi elettorali garantiti al PD dal proprio lavoro, lanciano su Twitter hashtag come #lamicodiEnrico, il cui unico e ambizioso fine è prenderlo per i fondelli.
C’è poi il nutrito filone di democratici spaventati dalla deriva personalista che il partito potrebbe prendere con lui in sella – avete letto bene – e quelli che, con imperdibili battutine, lo schierano a destra nell’arco parlamentare (ché, com’è noto, se non insegui Vendola e dici di voler recuperare voti anche a destra sei per forza un infiltrato) e non aspettano altro che rilasci una dichiarazione per sezionarla – magari poi lamentandosi di tutta questa attenzione mediatica che ha Matteo Renzi, mentre i loro candidati puri e intonsi devono lottare per ritagliarsi uno spazietto. Intanto, incidentalmente, fuori il mondo brucia.
Ne ho lette di ogni tipo, in questi giorni, di boutade su Renzi-l’americano – condite da fantasiose considerazioni sulla politica americana, Renzi-il leader supremo – condite da fantasiose considerazioni sulla leadership di un partito politico, Renzi-l’amico della finanza – condite da fantasiose considerazioni sulla finanza, e Renzi-berlusconiano – condite da fantasiose idiozie. Chiunque segua minimamente il dibattito sa da dove arrivano e chi non vede l’ora di ottenere cinque minuti di visibilità facendole. La domanda, però, è: perché? Voglio dire: il sindaco di Firenze è criticabile come chiunque altro, ovviamente, ma che ruolo ha avuto, nello specifico, in questo disastro? Perché non parlare, invece, di come si è giunti a questo stato di cose?
Se alle scorse primarie Renzi non fosse stato etichettato come “non di famiglia” e trattato di conseguenza, con ogni probabilità oggi parleremmo di un’altra storia, piaccia o meno. Non ci sarebbero voti di fiducia favorevoli ad Alfano del PD, non ci sarebbero gli impasse sulle vicende di Berlusconi e le Große Koalition che rinviano tutto il rinviabile. E questo post, magari, si intitolerebbe Le riforme si possono fare anche in Italia.