Il tifoso italiano è iracondo per antonomasia, fautore della politica del tutto e subito, spende e spande. Insomma, al tifoso italiano non affibbierei mai un’azienda. Il tifoso italiano è colui che nella doppietta di un ragazzo un po’ troppo cresciuto alla Germania agli scorsi Europei trasuda emozioni, veraci portatori di una rivalsa mai velatamente nascosta. Egli rinnega l’oculatezza e la parsimonia, ne preferisce l’impetosità e la magnificenza; guarda con l’occhio malupino la frontiera transalpina, terra di sceicchi di fantozziana memoria e digrigna i denti quando dall’Indonesia si vengono a scalfire decennali proprietà di famiglia.
Quando dovrebbe affondare radici di umiltà al cospetto di una conclamata miglior capacità aziendalista altrui, al contrario rinvigorisce il petto. Il tifoso italiano è un campionato che ha chiuso vent’anni di storia in un lucchetto, sazio dei suoi successi da El Dorado della frontiera del pallone nei primi anni 90 a terra per gli esodati nel secondo decennio del nuovo millennio. Altri arrivano prima di noi e il tifoso italiano, nella fattispecie tutto l’establishment del potere della penisola, arranca.
Ecco che allora converrebbe prendere un taccuino, rivolgere il capo oltralpe e capire le radici alla base di, che so, il modello tedesco. Dai grandi tonfi si hanno le migliori risalite: la Germania, agli Europei del 2000, esce dal girone senza portare a casa neanche un match e, dal 2002 al 2009, il Bayern Monaco diventa utopico realizzatore di sogni tedeschi non racimolando un solo quarto di finale nella massima competizione europea per Club. Il tifoso tedesco non si piange addosso, si spreme per rattoppare.
Si inizia da una riorganizzazione societaria, foriera del famoso modello del “50+1”. Le società tedesche si prefigurano come public companies in cui preponderante è l’azionariato diffuso che, democraticamente, elegge i propri rappresentanti. Soltanto VFL Wofsburg e Bayer Leverkusen esulano da questa convenzione, rispettivamente controllate al 100% da Volkswagen e Bayer. In Italia fatico a trovare una società che non sia controllata da un impianto familiare più o meno condito. Il tifoso tedesco il più delle volte ha una duplice fisionomia: il supporter allo stadio (con un prezzo medio di 22€ la Germania registra il più alto tasso di affluenza con circa 44.200 persone in media. In Italia la sola Juventus può fregiarsi di questo vanto) e il fan-ownership, reo di candidatura alle variegate cariche societarie (marketing, finanza, merchandising del prodotto). Questa è la forma di coinvolgimento dei tifosi nella sua forma più chiara: è garantita, attraverso la possibilità di eleggere i membri del consiglio per l’organizzazione di progetti comunitari, l’ opportunità per un coinvolgimento significativo in ogni aspetto del club.
Nessun club, dal 1963, anno della creazione della DFL (la lega tedesca) ha dichiarato bancarotta. D’altronde con un rapporto di indebitamento al 39% sarebbe improprio aspettarsi il contrario (in Italia il 156%, in Spagna il 249%). Sempre la DFL “costringe” ogni club facente parte delle prime tre divisioni ad “addestrare” squadre giovanili in tutte le età a partire dagli under 12 (77mln di euro investiti dall’intera Bundesliga nella crescita del vivaio, il doppio rispetto a quanto viene fatto nella penisola). Questo non si prefigura come un optional, essendo prerogativa per l’assegnazione della licenza di partecipazione al campionato. Inoltre la DFL si fa anche portavoce di una politica di controllo dei bilanci. In Italia la Lega Calcio e la FIGC sono impegnate, dopo 20 anni, a capire ancora perchè si spenda più di quanto si possiede.
E poi, la solidarietà. La stessa per cui in Italia si sciopera per la mancata adesione ad un contratto collettivo che nemmeno esisteva, in Germania prevede un’equa distribuzione dei diritti televisivi (in Italia prerogativa di tre sole società) e un anedottico prestito del Bayern Monaco verso gli storici rivali del Borussia Dortmund per evitare un tracollo finanziario (mi vien difficile pensare che Moratti offra un caffè a Galliani, neanche ad un autogrill).
A cosa porta questo? Ad un secondo posto nel ranking FIFA nonostante non si sia vinto un trofeo da che Mattheus ne abbia memoria, alla chiusura in attivo del bilancio dello scorso anno di 12 società su 18 della Bundesliga (in Italia sono otto con la sola Udinese a non dover però rimpinguare le casse della società tramite aumenti di capitale e con politiche di reinvestimento delle plusvalenze da calcio mercato. Sulla Juventus, nonostante lo stadio di proprietà, grava un passivo di 48,7 mln, duplicato per quanto concerne l’Inter), ad entrate complessive per 1.664 mln €, di cui commerciali per la metà.
La retorica fa presto ad esser smontata con le mitiche allusioni per cui la burocrazia tarda ad invischiarsi in faccende del genere quando ad esser tutelati sono gli interessi di pochi a discapito del sacrificio di molti. Gli aspetti sopra analizzati costituiscono una minuscola parte del perchè delle defaillance del sistema Italia dal punto di vista sportivo. “Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura che la dritta via era smarrita.” Sacrilego accostare la penna più evoluta della storia ad una catapecchia in neanche nobile decaduta come il calcio nostrano. Il pallone italiano si trova nella sua era di mezzo, attraversare la selva oscura diventa propedeutico ad un risanamento in cui anche altre istituzioni sarebbero coinvolte. E tacete degli acquisti di Tevez, Gomez e, probabilmente Higuain. La fama di un campionato non passa per sporadici colpi di coda dei loro presidenti.