Noi non ci preoccupiamo. Calderoli non l’ha detto. Non ha seriamente sostenuto che il ministro Kyenge somiglia ad un orango. Tentava solo di colmare un vuoto, la sola ragione per cui si trovava su quel palco: occupare spazio, gridare il più forte possibile.
D’altra parte, per quanto indigni e desti comprensibile allarme, l’orrore della Festa di Treviglio non ha neppure a che vedere con il razzismo in senso stretto, con il razzismo inteso nel senso del conflitto sociale, dell’autarchia politica, dell’incastellamento culturale, che – per esecrando che sia- ha perlomeno la forma della discorsività. Esso affonda le radici in un fenomeno addirittura più abietto: quello di un razzismo usato come intrattenimento, di un odio sociale reso spettacolo, dello scandalo quotidiano impiegato per punteggiare e maneggiare a piacere il discorso politico attraverso i mezzi di comunicazione.
Un fenomeno per certi versi antico, questo, ma sotto altri aspetti inquietantemente moderno, giacché connesso con una struttura esclusivamente mediatica del potere, peculiare dei nostri giorni e caratteristica del nostro paese. Drammaticamente incapace di produrre un discorso sul reale, intrinsecamente sguarnita di una legittimazione propria del suo operato, la politica nostrana si è da anni barricata dietro un muro di microfoni, e qui progressivamente adattata ad un sistema di amministrazione e controllo esclusivamente verbale della realtà, flusso costante di dichiarazioni, smentite, rivendicazioni, provocazioni, con cui semplicemente tiene in ostaggio lo spazio e il tempo della società civile. Un esercito di soldati del clamore, che con un rumoroso golpe ha preso possesso delle istituzioni e della vita sociale del paese, e con l’arma di un assordante quanto vacuo chiasso le controlla.
È un potere, questo, che domina la nostra attenzione dagli scranni televisivi e dalle fortezze radiofoniche, e per farlo lancia grida come granate. Ma appunto da questo impiego improprio delle parole come armi, segue un’importanza del tutto relativa dei contenuti. Ciò che importa, infatti, è che lo si gridi forte, giacché i termini utilizzati sono sempre già posizionati al di fuori di qualsiasi discorso complesso. Sono in grado di radunare folle, guidare movimenti, piegare l’opinione pubblica proprio grazie all’assenza di una discorsività in senso proprio, di un significato che oltrepassi il nome stesso. Basta la parola e un medium che la lanci, e il gioco è fatto. E questo perché si tratta di un messaggio che grazie alla medialità estrema e capillare di cui si avvale, non si dirige verso un gruppo di uditori, non genera una comunicazione collettiva, bensì si esaurisce in una comunicazione individuale, rivolta ai singoli individui come in un dibattito privato.
Forse era questo quello a cui pensava Marshall McLuhan quando profetizzava che a causa dell’introduzione dei “media elettrici”, in grado di generare e rivelare una sovrapposizione istantanea di medium e messaggio, si sarebbe verificata una riconversione in senso tribale della nostra società. In questa prospettiva, mi sembra, anche l’insulto, anche il bieco riferimento alla razza – come in altri frangenti quello al sesso, alla provenienza geografica, all’appartenenza ideologica – perde ogni spessore semantico in senso proprio, trasformato in un corpo semplicemente opaco e contundente, e qui sembra smarrire addirittura la sua innegabile gravità. Che sia il facile accostamento tra un’africana e un primate, la raffinata battuta sulle donne o l’elegante sarcasmo sull’affogamento dei migranti in mare, non si può neppure affermare che l’offesa, così gridata, si radichi in quella stessa cultura, vuoi razzista, vuoi integralista, vuoi xenofoba, in cui si è generata. E questo perché quella cultura stessa risulta un elemento fin troppo stratiforme per un simile comunicare, ridotta essa stessa, nella sua deplorevole complessità, a sasso da scagliare, piatto rumore, colore da esibire. È, insomma, essa stessa feticcio politico e grido culturale, priva di una vera e propria significazione extraverbale.
Non a caso per Calderoli stesso – che così si è giustificato – le parole pronunciate su quel palco sono solo “battute da comizio” e “giudizio estetico”, ovvero non possiedono alcuno spessore politico. Strano a dirsi, ma è davvero così, e proprio perché a monte, di autenticamente politico, quella come altre affermazioni, non hanno effettivamente nulla, e quella frase lanciata estemporaneamente assume, seppur proferita da un’alta carica istituzionale, il medesimo valore di una squallida battuta fatta in privato. Perché nel regime del chiasso, là dove manca il discorso, nulla è davvero pubblico, e nessuno può essere responsabile di quanto dice.
Simone Guidi
@twsguidi