Out among the EnglishSpazi vuoti: relingos (intervista a Valeria Luiselli)

È difficile spiegare cosa si intende con relingo, io l'ho imparato leggendo – in poco tempo e con grande piacere – Carte false, di Valeria Luiselli (La nuova frontiera, 2013) che è messicana e ha p...

È difficile spiegare cosa si intende con relingo, io l’ho imparato leggendo – in poco tempo e con grande piacere – Carte false, di Valeria Luiselli (La nuova frontiera, 2013) che è messicana e ha più o meno la mia età. Un relingo è un angolo di città svuotato, o che abbia perso la propria funzione originaria. È un luogo in potenza, ma senza una precisa e presente destinazione. È un concetto magnifico ed enorme, in cui nelle ultime settimane mi sono perso.

Valeria poi l’ho intervistata per Il Mucchio, e l’intervista la trovate qui di seguito con una domanda extra.

Carte false è un esercizio di scrittura libera, una collezione di capitoli diversi per tematiche e stili. Quale immaginavi fosse la loro destinazione, mentre li stavi scrivendo?

A scriverli ho impiegato parecchio, e ho sempre immaginato di farne un libro. Non ho mai avuto un blog, ci ho provato quando avevo ventun anni, ma non ha avuto molto successo e dopo un paio di mesi ho lasciato perdere. Solo due degli scritti di Carte false sono nati con una diversa destinazione, uno era in inglese ed è andato sul New York Times, un altro è finito su una rivista di cartografia. Per il resto fin dall’inizio la loro destinazione è stata questa.

Emergi come il prototipo della scrittrice della nostra generazione, quella dei nati negli anni ’80. È una generazione senza patria, che vive una condizione di costante mobilità e di estrema curiosità, dettata spesso dalla necessità dell’inseguire le occasioni, ma che in fondo ci permette di percepire la scrittura – giornalistica o letteraria – in maniera del tutto libera. Come vivi questa condizione?
Senza la mia mobilità, Carte false – ma anche Volti nella folla – non sarebbe esistito. Ho cominciato a scriverlo per reimpadronirmi di Città del Messico, la città in cui sono nata ma che non conoscevo, ma alla fine mi sono trovata a scrivere anche di New York, dove studio, e Venezia, dove per una serie di coincidenze ho la residenza. Non ho rispettato il mio obbiettivo originario, proprio a causa della condizione di non appartenenza che generava l’idea stessa del libro e che ha finito per cambiarla radicalmente. Non tornavo a Città del Messico da più di vent’anni, non sapevo cosa fosse, l’ho dovuta riscoprire e volevo testimoniare questa riscoperta con un gesto tangibile, che alla fine si è rivelato figlio proprio della mobilità di cui parliamo, e non esisterebbe senza il mio continuo vagare di posto in posto. Senza la voglia di scrivere di Città del Messico non mi sarei trovata ad esplorare il cimitero di San Michele a Venezia e non avrei analizzato la mia vita a New York, che poi ha dato vita a Volti nella folla. A conti fatti è stata una grande occasione.

Carte false è una vera fucina di spunti e lascia emergere una curiosità sconfinata. Il tuo è un approccio impaziente, vale a dire che senti l’urgenza di scrivere immediatamente di ciò che ti affascina, oppure accumuli informazioni e poi le svolgi con calma?
La mia è una scrittura in due tempi. Prima prendo una montagna di appunti, per mesi, su tutto quello che mi sembra degno di nota – per Carte false questa fase è durata quattro anni – poi mi siedo a scrivere e da quel momento non faccio altro. Quando scrivo lo faccio in maniera torrenziale, continua, in estrema concentrazione. Poi comincio a rivedere i frammenti, torno indietro su ciò che ogni singolo appunto ha generato e lo studio, lo affino finché non assume la forma che vorrei.

«I disordinati sono benedetti dalla capacità di trovare ordine nel caos». Sei disordinata?
No, non nel mio spazio vitale. La mia scrivania, la mia casa sono molto ben organizzate, però leggo in maniera disordinata. Comincio molti libri insieme, li porto avanti fino a un certo punto poi li sospendo per dedicarmi a un’altra lettura, poi li riprendo e ricomincio da dove li avevo lasciati, ma riesco a finirli tutti, prima o poi. Immagino che questo abbia influenzato il mio approccio alla scrittura, riordinandola in qualche modo.

Ho adorato la tua ricerca sulla parola saudade, che ho sentito molto affine – da anni cerco una traduzione alla parola napoletana apucondria, e sono giunto alla conclusione che questa e saudade si traducano esclusivamente e a vicenda. Quanto conta la lingua, e quanto l’hai studiata?
Tantissimo. La mia vita intellettuale, e di fatto la mia vita pubblica, è in inglese. Carte false è stato anche il tentativo di reimpadronirmi dello spagnolo, la mia lingua natale che si era allontanata da me assieme a Città del Messico. Per fare questo ho dovuto studiarne la musicalità, impararne la poesia e imparare a utilizzarla nella scrittura. Ho compiuto uno sforzo nel tentativo di restituire un ritmo allo spagnolo imparato in casa, a tavola – idioma de mesa, ad essere precisi (NdR) – che è passato inevitabilmente attraverso la necessità di riappropriarmi della musicalità poetica per farla confluire nella tensione della scrittura. Sono cresciuta e vivo tra tante lingue diverse e ho finito per farne un’ossessione personale, che sfocia in un lavoro continuo che passa attraverso la necessità di coniugare i miei interessi e congiungerli a quelli delle persone che incontro. Non per nulla l’ultimo saggio di Carte false è anche il primo paragrafo di Volti nella folla. È una catena ininterrotta che vive attorno alla ricerca sul linguaggio.

A me capita una cosa strana: quando trovo qualcosa che mi affascina e sento il bisogno di conoscerla a fondo, immagino subito come la spiegherò agli altri. Nel tuo processo creativo è più marcata la necessità di sapere o la voglia di raccontare?
Mi trovo più o meno a metà strada. All’inizio si trattava di un processo auto-riferito: sentivo il bisogno di raccontare a me stessa quello che stavo imparando, allora scrivevo principalmente per me. Poi a un certo punto la necessità di spiegare a me stessa si è evoluta in una voglia di spiegare agli altri. Anzi, direi in una voglia di tradurmi, di far comprendere agli altri quello che io avevo capito dal mio stesso racconto. È sempre una questione di lingue differenti, di vivere in mezzo a tanti diversi input.

Brodskji, Borges, Apollinaire, Benjamin, Walser, Baudelaire, Kracauer, Stevens, Pessoa. Quanto contano i modelli?
Tanto quanto l’esperienza di tutti i giorni. Per me la lettura si integra perfettamente a qualsiasi altra cosa io faccia, è esattamente sullo stesso piano. Allora se cito un grande scrittore – latinoamericano, italiano, tedesco – è perché ho integrato la sua visione come parte della mia vita.

Steiner che definisce Beckett come «uno sradicato che si sente a casa in diversi luoghi» – meraviglia! In fin dei conti: da dove vieni, tu?
Dal perpetuo relingo. Dall’eterno relingo.

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