Un tempo culla della civiltà ellenica, oggi Taranto è culla di Cerbero, mitologico mostro dalle fameliche e terrificanti tre teste. Ilva, Raffineria ENI, Cementir, sono queste le tre teste infernali che attanagliano la città dei due mari in un presente statico e infuturibile, nostalgico dei tempi andati.
Sin dagli anni ’60, in cui si edificarono le fondamenta per la costruzione del siderurgico, l’anno zero per i tarantini, la città jonica è stata maltrattata, privata delle sue bellezze naturali, impoverita e ricattata; stuprata da una classe politica che ha permesso la costruzione del colosso siderurgico invece che favorire lo sviluppo del settore turistico. I presupposti c’erano tutti: mare cristallino, sterminate distese di sabbia simil-California, macchia mediterranea tra le più caratteristiche dell’intera Europa, paesaggi spettacolari. Sarebbe stata la soluzione più logica; più logica ma economicamente meno profittevole evidentemente. Un vecchio adagio dice che i soldi non puzzano: a prescindere dall’inquinamento, a Taranto i soldi puzzano e come! Puzzano di marcio, di riciclaggio, di opportunismo politico, di clientelismo, di disagio sociale, di soprusi e ingiustizie. Puzzano di ignoranza e di scarsa sensibilità culturale. Puzzano di paura.
Perché se abiti a Taranto hai paura di recarti in ospedale per fare accertamenti sul tuo stato di salute; in ogni famiglia c’è un malato: leucemie, tumori al seno o alle ovaie, polipi maligni allo stomaco. Uomini, donne o bambini fa lo stesso, la diossina non guarda in faccia a nessuno, non ha coscienza.
Un tempo però non era così, un tempo Taranto era una specie di Eden, un paradiso terrestre bucolico che aveva fatto della pesca e della miticoltura il proprio “core business”. Ettore Toscano, poeta Tarantino, ricorda vividamente il cambio che si ebbe quel maledetto 9 luglio del 1960: “Prima, i bambini che soffrivano di asma o piccoli problemi respiratori li mandavano al rione Tamburi per respirare aria fresca. Ora da qui si scappa”, rammenta commosso il poeta.
I veleni di Cerbero si sono infiltrati in ogni casa tanto da conferirle il tipico colore rosso, sui terreni agricoli e sui suoi frutti, nei corsi d’acqua e nel mare.
Nonostante ciò, le ciminiere sono sempre lì a sputare i loro fumi pestilenziali. Nessuno dice o fa nulla. La città dei due mari cade nell’oblio del menefreghismo e delle menzogne dei nostri politici e amministratori che si inchinano ad imprenditori cinici e spietati, a logiche di mercato che come vampiri succhiano sangue ad innocenti vittime predestinate.
Ma siccome le disgrazie non vengono mai da sole, oltre al danno ambientale e umano c’è anche quello sociale.
Migliaia e migliaia di operai, tra i quali tanti amici, sono in cassa integrazione e molti ci andranno nei prossimi mesi. Al dramma si aggiunge un altro dramma: un dramma sociale che mette in ginocchio migliaia e migliaia di famiglie che dall’Ilva traevano il proprio sostentamento. Questo è lo stupro che il capoluogo jonico e la sua provincia ha subito e che inesorabile continua a subire.
E difficile schierasi, è difficile pronunciarsi in merito alla chiusura o meno dello stabilimento; troppe le variabili da considerare, troppi i destini in gioco. In ogni caso rimarrebbe sempre e comunque un dramma da risolvere, sia esso sociale o ambientale.
Certo è vero che In un paese normale una soluzione al dualismo lavoro/inquinamento si sarebbe trovata. In Italia no: la storia va avanti da oltre 50 anni e chissenefrega se ogni tanto ci scappa qualche morto per tumore; è fisiologico, è così che deve andare in fondo no? Chissenefrega se intere famiglie vedono sfumare i propri sogni perché perdono il lavoro e non sanno come andare avanti. Chissenefrega, parliamo d’altro, parliamo di cose più importanti.
Taranto scompare, sparisce dai TG, sparisce dai giornali sparisce perfino dalle carte geografiche. Diventa invisibile.
15 Luglio 2013