Si chiamavano expatriés i francesi partiti all’estero, in gran parte a Londra, in Canada (a Montréal dove si parla francese) o negli Stati Uniti. Ora qualcuno inizia a sollevare il problema, perché distinguerli ipocritamente dagli emigrati se dalla Francia ormai si espatria per necessità e non per volontà? I ricercatori, dottori di ricerca o postdoc, trovano ormai poche opportunità in Francia e preferiscono rivolgersi all’estero. Soprattutto, gli stipendi sono troppo bassi per dei livelli di specializzazione così elevati. Si è addirittura creato un business nella “consulenza all’emigrazione”: con corsi su come redigere un buon cv per la Malesia o avere un colloquio in Austria (vedi qui).
Il tutto va, certo, relativizzato. I numeri non sono così drammatici e si tratta di dati incomparabili con quelli italiani, il 2,7% dei dottori di ricerca emigra (dottorati nel 2007), e di studenti o ricercatori che entrano in Francia da altri paesi europei o africani, ce ne sono ben di più. L’accoglienza, da questo punto di vista, è più importante della fuga. In Italia, invece, “per un cervello che entra, tre ne escono” (vedi qui).
Tuttavia la questione è ormai d’attualità, se ne parla quasi più che in Italia, nonostante da noi non sia neanche più un’urgenza ma un fatto inesorabile, al punto che il ministro delegato ai francesi all’estero ha dovuto intervenire oggi su Le Monde sostenendo che si esagera e affermare, in difesa dell’orgoglio nazionale, che i francesi non emigrano (vedi qui). Ma basta leggere i commenti all’articolo per capire che i lettori non la pensano allo stesso modo.