Svettiamo, sono 32. Il titolo riprende una citazione che fece Sandro Veronesi a proposito di un aitante giovane svizzero che calcava e vinceva campi in erba. L’ottimo Sandro arpionò Carmelo Bene, uno che a ricordarlo si fa sempre bene a prescindere di cosa dica. In quell’occasione aveva chiosato Edberg come fosse “il tennis a giocar se stesso”. Sembra metafisica, non lo è. Puntualizzo sempre come il tifo non sia una cosa a me presente; l’unico, coincidente con le puntuali levatacce notturne, è riferito a Roger Federer, un simposio tra noi lungo ormai 10 anni e che quest’anno compie appunto le sue particolari nozze “di stagno”.
Rino Tommasi avrebbe a dire di tanti circoletti rossi e io ne porrei uno su tutto ciò che Federer ha donato al tennis: delle sue 17 vittorie Slam, delle oltre 300 settimane in vetta alla classifica mondiale di cui 237 consecutive, delle due gemelle, della faida generatrice di meraviglie con Nadal e della condotta da buon padre di famiglia quando i puledri scorrazzanti di Murray e Djokovic hanno iniziato a far la voce grossa. Del ritorno a Gstaad e Amburgo perchè la condizione fisica non lo supporta, del mal di schiena e dei 7 Wimbledon. Del primo trionfo a Milano e delle 76 gioie successive come degli anni senza vittorie Slam e dell’unico Roland Garros vinto nel 2009 in contumacia di Nadal, dei 36 quarti consecutivi in un torneo dello Slam (dato ancora più inquietante le 23 semifinali consecutive) alle sconfitte contro Stakhovsky e DelBonis.
David Foster Wallace, inviato per bocca del New York Times in occasione di quella che sarebbe poi diventata la data a quo della storia delle rivalità in racchetta (Wimbledon 2006, anno della prima finale sui campi di Church Road tra lo svizzero e il maiorchino), disse di Federer come un’esperienza religiosa, l’anello di congiunzione tra il tennis che fu e quello che sarà. Probabilmente anche e soprattutto per questo non è inviso ai più. L’uomo è notoriamente sensibile al tuffo indietro, ad un appiglio che, contemporaneamente, possa ricordare e far sognare. E’ una commistione, legame tra la nostalgia di un amore ormai perduto e il vigore di una passione ancora pulsante.
Roger Federer ha segnato un’epoca. Uso appositamente il passato prossimo perchè la retorica è spicciola e serve a poco. I continui malanni alla schiena lo spingeranno verso decisioni drastiche e periodi di riposo e cambi di racchetta non eleveranno il livello di tennis che lo svizzero è in grado di esprimere, da troppi anni capitano di un veliero di popolarità e da troppo tempo, per questo, succube della causa stessa del suo declino: 10 anni vissuti al vertice conditi da tante gioie e altrettanti urli strozzati sul nascere. Un gioco spumeggiante, votato all’attacco e di un paio di tocchi che Dio ha deciso di donargli. Alla fine si tratta di questo: come Phelps, Clay, Lewis, Bolt, Maradona, è un talento mutato in oro. Federer è la magnificenza dell’essere, quel substrato di irrefrenabile poesia che si condensa in un solo gesto ripetuto più volte, ogni qualvolta si rinnova quel magico binomio tra lui e la racchetta.
Questo è un blog, frutto anche di pensieri spudoratamente di parte. Non ce ne saranno tanti ma uno, l’8 agosto di ogni anno, mi prenderò il lusso di concederlo. Ci si concede il lusso di poter dire che 32 candeline non siano abbastanza: lo si spera, per gli amanti del tennis che è stato, per quelli che ora si sono avvicinati e per i navigati che lo seguono da più lustri.
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