Incontro tra Nobel asiatici a Praga. Il Dalai Lama ha visto l’icona della democrazia birmana Aung San Suu Kyi. L’incontro è avvenuto a margine di una conferenza internazionale organizzata dal Forum 2000 che ha portato nella capitale ceca intellettuali e politici.
L’incontro è stato organizzato pur tenendo conto del rischio di scatenare le ire di Pechino. Sullo sfondo ci sono da una parte i rapporti della Cina con il Tibet. Il Dalai Lama, in esilio in India dal 1959, è definito da Pechino “un lupo travestito da pecora“, un separatista cui è imputato l’obiettivo di rompere l’unità della Repubblica popolare. La Signora, come Aung San Suu Kyi è chiamata dai suoi sostenitori, rappresenta invece un paese che si sta aprendo al mondo, ma che negli anni di isolamento durante il regime della giunta militare ha avuto nella dirigenza cinese uno dei principali alleati.
Già in passato non è mancata la minaccia di ritorsioni cinesi verso i Paesi i cui capi di Stato e di governo avevano ricevuto il leader spirituale tibetano. Nel 2010 l’università di Gottinga pubblicò addirittura uno studio che analizzava gli effetti negativi di questi incontri negli scambi bilaterali con la Cina. Per il Myanmar, nome imposto dai militari, o Birmania se si preferisce la dicitura usata da quanti si opponevano al regime, la situazione è più complicata.
Aung San Suu Kyi, leader riconosciuta e stimata da tutti i birmani, è la principale figura dell’opposizione, sebbene goda di aspirazioni presidenziali, che rimarranno tali se non sarà modificata la norma della Costituzione che le impedisce la candidatura. Al governo siede il presidente Thein Sein, ex generale e ora politico che guida il Paese dei pavoni verso l’apertura e le riforme, sebbene tra molte contraddizioni: la questione delle discriminazioni contro la popolazione rohingya, gli scontri con la comunità musulmana, i conflitti con le minoranze etniche.
Thein Sein tenta di tenere in bilico il Paese tra Cina e Washington. In questo contesto se l’ex generale guarda agli Stati Uniti, spetta all’opposizione, ossia ad Aung San Suu Kyi, mantenere buono il potente vicino cinese. È di questi giorni la notizia che gli investimenti cinesi sono calati da quando il governo birmano ha avviato il corso riformista, succedendo alla giunta militare nel 2011. Dai 12 miliardi di dollari del 2008-2011 si è passati ai 407 milioni del 2012-2013. In mezzo ci sono state anche decisioni birmane come quella di bloccare su pressione popolare il progetto per diga di Myitsone e la miniera di rame di Letpadaung. Si parla ora della ripresa di quest’ultima a patto di maggiori benefici per il governo e a scapito degli investitori cinesi e della holding birmana legata all’esercito a capo del progetto.