A urne chiuseLa sindrome dei Buoni

C'è una parte del dibattito sul prossimo Congresso del più grande partito riformista italiano - potreste chiedervi, lecitamente, di quale sto parlando: è il PD - che, soprattutto in questi giorni, ...

C’è una parte del dibattito sul prossimo Congresso del più grande partito riformista italiano – potreste chiedervi, lecitamente, di quale sto parlando: è il PD – che, soprattutto in questi giorni, mi lascia piuttosto di stucco. Mi piacerebbe dire che il problema è riscontrabile a livello dell’agone politico generale, ma per esperienza personale posso limitare il discorso al Partito democratico.

Si tratta, in ogni caso, di un morbo di cui sono portatori sani molti militanti, iscritti e semplici simpatizzanti di aria democratica, in tutte le sue cosiddette correnti e nella totalità delle sue espressioni: la sindrome dei Buoni. È una patologia che si manifesta con segnali quali la resa incondizionata alla retorica del candidato di riferimento, la devozione semitotale della propria quotidianità a scolpire nel marmo dei social le interviste che il suddetto rilascia e la protervia con cui il malcapitato che ne è affetto si trova, suo malgrado, ad attaccare chi ha altre vedute.

A soffrire maggiormente di questo male, logicamente, sono innanzitutto i figli dei figli dei figli dei pretoriani della questione morale berlingueriana, che oggi ormai di morale ha poco e di retorico quasi tutto. La sinistra che ha il DNA migliore, no matter what, non acconsentirà mai ad ammettere le proprie contraddizioni e guardarsi allo specchio senza remore (talvolta neppure ad ammettere le proprie sconfitte), perché la sua ragione è tale in quanto figlia di una narrazione storico-culturale della propria identità. Noi siamo i buoni, perché dovremmo metterci in discussione?

Nel concreto, la giustificazione antropologica dei Buoni porta ad alcune conseguenze spiacevoli. Innanzitutto, non esiste dubbio che il candidato che il Buono sostiene non sia quello che vuole il meglio per il partito o comunque, intendiamoci, quello che ha le ricette migliori per conseguirlo. Pippo Civati, che online ha raccolto una solida e organizzata comunità di seguaci, torna utile per parlare di ciò che intendo. Pur non essendo l’unico candidato con un seguito colpito da questa sindrome – anche Renzi non sfugge a questa logica, per quanto i civatiani credo vincano il rapporto numerico – Civati ha un parterre di fiducia su Twitter disposto a difenderlo senza se e senza ma (me ne sono accorto a mie spese). Il monzese, che si differenzia dal fiorentino per i suoi riferimenti culturali, molto meno popolar-democristiani-scout e molto più post-comunisti e questionemoraleggianti, ha insomma tra le sue file un sacco di Buoni.

Forse sospinti dalla carica dell’aspirante segretario, forse desiderosi di far valere la loro superiorità antropologico-culturale, una buona fetta di questi militanti e simpatizzanti ha abbandonato lo sterile campo delle argomentazioni per fiondarsi in quello della rivoluzione culturale, con toni e metodi da forza che persegue questo scopo. Non si tratta di tutti i sostenitori di Civati, ovviamente (ve ne sono di preparati e capaci di dar vita a discorsi molto interessanti), né di tutti quelli di Cuperlo – che, ammetto, non ho ancora visto in forma organizzata sui social, anche se immagino che le posizioni sarebbero simili – ma di sicuro di persone convinte che la sinistra, quella vera, abbia la precipua funzione di rieducare e adeguare la realtà ai suoi dettami, non viceversa (cosa che diceva in termini molto simili ieri lo stesso deputato; l’ho saputo grazie all’hashtag #direttaCivati).

La sindrome dei Buoni – ma forse potremmo chiamarla anche “della Verità” – colpisce quando alle critiche sulle scelte politiche del proprio candidato si risponde visibilmente alterati, evadendo dalle argomentazioni in essere e trincerandosi dietro accuse personali piccate, luoghi comuni più o meno ricevibili, frattaglie paraideologiche e formule come «non capisci» o, peggio, «sei in malafede». E se invece, mettiamo il caso, avessi capito perlomeno quanto basta e avessi un’opinione da esprimere in merito? L’ipotesi spesso non è contemplata, per i motivi di cui sopra.

Le idee che ho di Civati – che sono poi le stesse, pur in parte declinate, che applicherei alla mozione Cuperlo – sono lì da mesi, non ne ho mai fatto mistero e sono basate su qualche argomento fondamentale. Di solito, tuttavia, alla loro proposizione mi si risponde regolarmente con l’ignoranza decantata nel paragrafo precedente. Oggi stesso uno dei Buoni mi ha risposto a un’obiezione precisa, ancorché ripetuta, in maniera molto pesante (per cui poi si è scusato, è giusto precisarlo), tale da farmi pensare che Gasparri o Storace – nel cui pantheon sicuramente Berlinguer non trova posto – non avrebbero saputo fare di peggio.

Ma non ho scritto per condannare nessuno o raccontare noiosi fatti personali, bensì sperando di poter dare la stura a una modesta ma utile riflessione.

Una riflessione che non riguardi solo civatiani o renziani ma tutti quelli che sono persuasi di portare le insegne del Bene e della Verità nei dibattiti politici e non. A loro vorrei dire che il Bene, spesso, comunque lo si intenda è innanzitutto una questione di scelte. E una buona scelta, per logica, è quella che si sa motivare senza scendere in trincea.

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