Ieri sera, nel clima effervescente del festival Short theatre, che ha trasformato il mattatoio di Roma in uno degli spazi più vivaci della capitale, finalmente degno delle migliori città europee, è successo un fatto importante. A volerlo dire in fretta bastano poche parole: la compagnia Barletti/Waas, italiana ma residente a Berlino, ha presentato con gran successo Autodiffamazione, bellissimo testo del 1964 scritto da Peter Handke. Ecco: detta in quattro parole, questa storia finisce subito. Ma invece, a scavare, questa è una storia che inizia tempo fa. A metà degli Anni Novanta.
Waas, con la gloriosa sigla Quellicherestano, diede vita a una compagnia di forte impatto emotivo, con eccellenze attorali notevoli. Un gruppo anarchico, trasversale, indomabile. Un gruppo che seppe portare in Italia drammaturgie allora poco frequentate (da Achternbush a Schwab a Jelineck) attraversando anche classici (da Lorca a Fassbinder a Natalia Ginzburg fino a un rutilante e clamoroso Moravia) spingendosi poi a scritture del tempo presente come Tarantino o Moresco. Lavoravano, allora, su una estetica del dubbio, su una ricerca dell’imperfetto, del fallimento, della catastrofe. Erano antesignani di una modalità di stare in scena oggi conclamata e di successo: ma in quegli anni considerata fastidiosa, decadente, inconcludente, addirittura spocchiosa.
Portava alle estreme conseguenze, Werner Waas, una estetica appresa anche lavorando alla scuola di Carlo Cecchi: quel gusto per l’incompleto, lo “sciatto” (ma fatto ad arte), per il trasandato (ma studiatissimo) che poi è esploso in tante non-recitazioni di oggi. E certo la scuola tedesca (che ha punte di diamante in Marthaler o Pollesch) si riverberano in un modo di far teatro che Waas ha sempre difeso con orgoglio, fino al sacrificio. Perchè certo questo artista non ha fatto compromessi, non ha cambiato poetica, nonostante i sonori fallimenti decretati da critici soloni allora invaghiti di ben altre estetiche.
Con caparbietà Waas, che nel frattempo aveva incontrato quella che sarebbe diventata sua moglie, la brava attrice Lea Barletti (un’altra storia di teatro alle spalle, legata alla ricerca romana), ha cercato altrove la sua strada: prima a Lecce, con le Manifatture Knos e Induma teatro; poi a Berlino, in un ritorno a “casa” che non ha escluso però frequenti contatti con l’Italia (anche in veste d’attore).
Ora, con la neonata compagnia Barletti/Waas, è la volta di Handke e di Autodiffamazione, all’interno di un più ampio progetto dedicato al grande autore di lingua tedesca. Ed è, finalmente, il felice coronamento di quella storia. Lo spettacolo è un mondo che si mostra, senza sconti, nella parola. Il testo, da noi poco o nulla frequentato in passato, è scritto per un uomo e una donna. Ma non ci sono “battute”, intese in senso tradizionale o dialogico; non ci sono descrizioni di ambienti o personaggi. Sono semmai blocchetti di testo, cumuli di affermazioni che procedono per assonanze, contrasti, negazioni. Tutte partendo da “Io”, da un racconto analitico fino allo sfinimento, fino al cavillo, del sé. È dunque un flusso alterno (lei-lui) di affermazioni, di auto-descrizioni (o diffamazioni, appunto) di chi fa i conti con se stesso. Si apre con «Io sono venuto al mondo» e continua, avvolgendosi, aprendosi, avviluppandosi, declinando, delirando, dettagliando, con infinite altre dichiarazioni o domande. «Mi sono mosso. Ho mosso parti del mio corpo. Ho mosso il mio corpo. Mi sono mosso sul posto. Mi sono mosso dal mio posto» e così via. Ed è un gioco al massacro, un inesorabile scavo nel profondo, nelle contraddizioni, nelle domande, nei dubbi, nelle certezze.
È una confessione senza il peso morale, è una esposizione senza pudore, è una autopsia di quei cadaveri viventi che sono – che siamo – gli uomini. Svelando così una verità senza tempo, una assolutezza in cui tutti e ciascuno possono riconoscersi, Autodiffamazione non è solo l’autoritratto impietoso di un intellettuale scomodo, declinato in due esseri umani, ma anche un’affresco generazionale o addirittura un racconto dell’umanità rappresentata in età evolutiva (o involutiva). E fanno bene, dunque, Waas e Barletti a presentarsi in coppia, le luci di sala accese e sparate, completamente nudi. Lei solo con le scarpe, lui con cappello e orologio. Stanno là, fermi, a lungo, imbarazzati e disinvolti assieme, coppia primordiale e eterna: John e Yoko, Marina e Ulay. I corpi “normali”, quotidiani, segnati forse dal tempo e dalla vita. Poi, iniziano, con semplicità, a parlare, senza interpretare, semplicemente dicendo. Una volta assunti abiti “civili” gireranno anche tra il pubblico, ponendo domande senza cercare risposte. Poi, lentamente, ancora le affermazioni verranno introiettate, acquisteranno pathos, amarezza, perplessità: toni e colori, insomma, di una verità che fa aprire – ad ogni spettatore – rimandi sull’attualità o sulla propria biografia. «Ho dato segni di approvazione in luoghi in cui segni di approvazione erano vietati. Ho dato segni di disapprovazione in tempi in cui i segni di disapprovazione erano indesiderati». Entra la politica, la società, entrano la speranza, il disincanto, il disagio di stare al mondo, nel racconto di Handke. E nell’estremo rigore dell’allestimento, il testo arriva dunque come una freccia, come uno scandaglio dell’anima. Ma poi, alla fine, dopo quel fiume di parole che tutto travolge, non restano che loro due, una coppia come tanti altri: con la difficoltà del rapporto di coppia, con l’impossibilità del rapporto di coppia. Con l’amara consapevolezza della vita passata.