“Mi chiamo Luca Cassetta, 32 anni, milanese, sposato, due gatti, vivo a New York da quasi tre anni e mi occupo di ricerca scientifica. Ebbene si, lo ammetto, sono un cervello in fuga!
Appartengo a quella schiera di giovani (o meno giovani) che hanno deciso di abbandonare l’Italia per cercare fortuna all’estero!….”
Inizia così la lettera di Luca, che in questi giorni viene rilanciata e condivisa su vari social network. Una delle tante lettere che arrivano abbastanza spesso da persone che lavorano all’estero, ma che non tutti quelli chehanno scelto di lavorare nei laboratori del mondo, amano definirsi “cervelli in fuga”. Anzi. Molti non vogliono che la loro scelta di vita sia ristretta e confinata in questo termine un po’ infelice. Allora come definirli? Qualche tempo fa ne parlai con Giorgio Einaudi, professore di fisica a Pisa e per vari anni Addetto scientifico all’Ambasciata di Washington. “Per me sarebbe meglio usareil termine mobilità – disse – perché il termine “fuga dei cervelli” è un termine limitativo e improprio, che evidenzia soltanto il lato europeo, negativo della medaglia. L’altra faccia è infatti il lato positivo, per l’America, del guadagno dei cervelli ( in inglese il gioco di parole è brain drain/brain gain). Il motivo è che, anche se sicuramente il fenomeno rappresenta un chiaro segno della difficoltà del sistema universitario e di ricerca italiano, e anche europeo, esso deve essere inquadrato all’interno del processo fisiologico d’internazionalizzazione della comunità scientifica. Questo processo fa parte della globalizzazione, che si applica anche a risorse umane che, in mercati sempre più aperti, seguono i migliori incentivi, non esclusivamente economici”.
Ma al di là del termine, comunque il fenomeno esiste e ogni anno lasciano l’Italia oltre 60mila giovani, di cui il 70% laureati. Dai dati Censis si desume che hanno lasciato l’Italia due milioni di persone in dieci anni.
Ma dove vanno? Secondo l’ultimo Rapporto Migrantes “Italiani nel Mondo” del 2012, i cittadini italiani iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) sono 4.208.977, di cui il 47,9% donne ( ma non tutti si iscrivono), vanno prevalentemente in Europa, anche se è in netta ascesa l’emigrazione verso l’America Meridionale che stacca nettamente quella verso l’America Centro-settentrionale. In Europa domina la classifica degli espatri dei 20-40enni la Germania, seguita dalla Gran Bretagna e dalla Svizzera (3118). Quinti gli Stati Uniti. Qui gli italo-americani iscritti all’Aire sono 215.000, mentre le persone di origine italiana sono 15 milioni nell’intero Paese e, di essi, 2 milioni e 700 mila risiedono nell’area metropolitana di New York.
La fondazione Migrantes che ogni anno presenta un Rapporto, non perde occasione di raccomandare a chi vive all’estero di mostrare un maggiore attaccamento alle vicende italiane, non facendo mancare suggerimenti mirati in occasione dei molteplici incontri organizzati dal governo, dalle regioni e dalle associazioni. Ma come? In molti lo fanno, ma nessuno li ascolta. E allora? Non è che si può sempre abbaiare alla luna. Si perdono le speranze e ci si distacca.
Ora l’occasione c’è. Da poco è nata Innovitalia, una piattaforma web in crowdsourcing, messa su dal Ministero degli Affari Esteri che consente ai talenti espatriati di restare in contatto con l’Italia e contribuire così con le loro idee e suggerimenti alla crescita economica di questo Paese.
Ma non è tutto. La recente Conferenza dei ricercatori italiani svoltasi a Houston (Texas) ha lanciato l’idea di una Anagrafe dei ricercatori italiani all’estero. Idea subito recepita dalla deputata Elena Cenemero, che l’ha fatta propria, ed ha presentato una proposta di legge per creare una rete di collegamento tra gli scienziati italiani che lavorano nel nostro Paese e quelli operanti all’estero attraverso la creazione di una banca dati telematica. La rete permetterà di non disperdere “le ottime capacità e potenzialità dei ricercatori italiani formatisi nelle università del nostro Paese, il cui operato è riconosciuto ed apprezzato a livello internazionale”.
E questo è vero. I nostri ricercatori all’estero sono apprezzatissimi. Lo ha sempre detto il professore Einaudi che gli studenti italiani vengono accettati nelle prestigiose Università Americane non tanto per il loro curriculum, ma per la fama che si sono conquistati in tanti anni di successi. E a supporto di ciò raccontava che un famoso professore di medicina americano era solito dire: “Se presenta domanda di ammissione uno studente italiano, lo prendo subito. Non perché sa di più, ma perché è più motivato e intelligente”.
E Luca Cassetta è uno di questi. Ha scelto di vivere e lavorare in un altro paese. Ma non intende affatto interrompere i suoi legami con l’Italia. Anzi. Come tutti li rafforza, perchè “da italiani all’estero – scrive -si sente la responsabilità di fare qualcosa per migliorare le cose. Per cui consiglio a chiunque di uscire per un po’ dall’Italia, di guardarsi intorno, di capire come vivono gli altri e come sono organizzati. Solo paragonando la nostra situazione attuale con quella di altre nazioni possiamo acquisire una coscienza critica e possiamo capire che cosa davvero va cambiato nel nostro Paese”.