Sicuramente non è un caso se, all’uscita dello Strehler dopo aver visto “L’amore è un cane blu” di Paolo Rossi (24 settembre-6 ottobre), ho notato che le persone si fermavano davanti al teatro e parlavano, si scambiavano pensieri invece di scappare a casa a preparare la giornata di domani. Si percepiva nell’aria il fatto che tutti si sentissero soprattutto parte di qualcosa. Qualcosa di incomprensibile come l’esistenza e il Mondo, ma che certamente accomuna e raccoglie tutti. E’ stato questo intenso e profondo spettacolo a risvegliare nelle persone un senso di comunanza e appartenenza alla Vita.
Paolo Rossi crea in scena una finzione che esprime la verità in modo ancor più efficace, come il teatro riesce a fare. La scusa drammaturgica, l’escamotage narrativo per affrontare temi come la vita, la morte, ma anche la situazione generale italiana oggi e i problemi della politica e l’attualità, è dato dall’intervento della Morte in persona alla festa di matrimonio di un ricco allevatore biologico di maiali. La festa si svolge nella zona di Monfalcone, in Friuli Venezia Giulia (da dove Paolo Rossi proviene): qui si trova anche il comico-protagonista della vicenda, che è stato chiamato dall’allevatore per intrattenere gli ospiti alla festa. La Morte si rivolge allo sposo per portarlo con sé, è arrivato il suo momento. Questi non ne vuole sapere. Dopo una lunga discussione si arriva alla paradossale conclusione che, se proprio lo sposo non vuole venire, la Morte si accontenta di un’altra persona. Ancora più paradossalmente l’unica altra persona che accetta di sacrificarsi è la novella moglie, che quindi parte con la Morte per un altro mondo. A questo punto inizia l’Odissea di Rossi negli inferi per ritrovare la donna, fino ad un lieto fine che è tutt’altro che banale. Come se non bastasse, ad aggiungere un altro pizzico di ironia e non sense ad una trama già piuttosto assurda, c’è la consapevolezza, che Rossi ha suscitato negli spettatori all’inizio dello spettacolo, che tutto ciò che sta avvenendo in scena in realtà sono le prove per un nuovo film. Quindi “anche le stonature dei musicisti sono fasulle, così come i vuoti di memoria dell’attore…”
Aldilà della trama, lo spettacolo si serve in modo consapevole e davvero efficace di tutte le arti che compongono il teatro: dalla musica originale, composta da Emanuele Dell’Aquila ed eseguita da “I Virtuosi del Carso”, orchestra di musiche balcaniche (Emanuele Dell’Aquila -chitarre-, Alex Orciari –contrabbasso-, Stefano Bembi –fisarmonica-, Denis Beganovic –fiati-), alla recitazione di Rossi, che parte da un testo raffinatissimo tra richiami colti, popolari, poetici e crudi, scritto da Paolo Rossi con Stefano Dongetti, Alessandro Mizzi in collaborazione con Riccardo Piferi e la supervisione di Gaia Rayneri. Uno spettacolo che mette a nudo l’essenza dell’umanità, ma riesce a farlo con ironia pur senza leggerezza. Uno spettacolo in cui Rossi interpreta magistralmente e ricrea la scuola di Dario Fo e Iannacci, di cui anche, alla fine dello spettacolo, c’è un richiamo diretto.