Un gradino sotto la Casta, intesa come specie politica, ma forse un po’ sopra Equitalia, il test di ingresso per i corsi a numero chiuso troneggia in un’ideale classifica dell’odio patrio. Lo dicono i giornali di questi giorni, pieni di critiche pensose, tutte generalmente convergenti su una tesi univoca: l’inidoneità dello strumento allo scopo, l’inefficacia dei quizzoni a misure il talento di chicchessia.
La critica s’accompagna in genere all’invettiva e all’esemplificazione degli aspetti magari più iperbolici della prova. Come può, si scrive, un test iper nozionistico stabilire chi è bravo o chi lo è meno? Molto pathos lo aggiungono le storie dei giovani, “tanto portati” per questa o quella disciplina, nati per una certa professione, col santo per la Medicina in genere, e che vedono i loro sogni morire all’alba di una risposta multipla, uccisi dal plotone di esecuzione d’una correzione automatica.
L’indignazione sale poi se, come accade sovente, a chiosare è un medico, in genere anche professionalmente realizzato e apprezzato dai colleghi e dalla comunità scientifica. In quel caso, in genere, scriverà che neppure lui, fior di primario, l’avrebbe superata la prova immonda.
Come accade da qualche anno, la critica allo strumento “test” nasconde a fatica un autentico fastidio verso l’idea della prova selettiva. Si tratta di un sentimento che emerge anche per le prove Invalsi, con cui si vuol misurare il livello di preparazione delle nostre scuole primarie e secondarie. In quel caso la polemica s’attarda sulla tipologia delle prove, ironizza sulla concretezza di certi quesiti o l’astrusità di certi esercizi. Si fa insomma del sarcasmo sulla via italiana all’assessment.
In realtà, come qualcuno intellettualmente onesto, di tanto in tanto, ammette, il problema non sono i test Invalsi ma l’idea stessa di valutazione e il timore che la rilevazione di un livello di competenze dell’alunno sia l’anticamera del giudizio sull’insegnante.
Hanno la stessa stoffa, le astiose contestazione del lavoro dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca, circolate in luglio, quando ne sono stati resi noti i risultati. Contestazioni che andavano ben aldilà degli errori, che sembrano esserci stati all’atto della prima comunicazione dei dati. Lo stesso dicasi della rincorsa alle più esotiche e astruse classifiche internazionali, tutte improvvisamente degne di nota, purché contraddicano i dati dell’agenzia: alcune ritracciate persino negli Emirati arabi quando, per anni, si era irriso il ranking di Shanghai solo per il fatto che fosse stilato all’altro capo del mondo.
La crociata antitest d’ingresso mostra l’insofferenza massima è verso un modello non discrezione in un Paese dove la discrezionalità trionfa, dove la mobilità sociale è bassissima, per cui i figli degli avvocati a fanno gli avvocati, quelli degli architetti il mestiere dei padri e anche la progenie dei medici e degli odontoiatri insiste nella professione dei genitori.
Dunque non meno test ma più test, se si vuol costruire un’Italia che scelga la via del merito e della sua valorizzazione. E test unico nazionale, con una ponderazione efficace del voto di maturità – quella attuale, introdotta di recente, pare ancora insufficiente -, in modo da consentire ai migliori di scegliere le migliori università. Non semplicemente perché i posti sono pochi e la domanda ampia, ma come elemento di metodo in una società che voglia premiare il talento.
Parrebbe persino ovvio dire che non basta, che ci vuol ben altro per aggiustare l’ascensore sociale.
Coi “benaltrismi”, però, l’Italia resta ferma.