Alta FedeltàVampirismo mediatico, se un giornale fruga nel pattume

  Bari - Il giornalismo che non ti aspetti? Purtroppo no, di questi tempi. E' esattamente il giornalismo che ti aspetti, invece. A farmici riflettere il post di un mio contatto e collega su Facebo...

Bari – Il giornalismo che non ti aspetti? Purtroppo no, di questi tempi. E’ esattamente il giornalismo che ti aspetti, invece. A farmici riflettere il post di un mio contatto e collega su Facebook:

Giuseppe Pace, (ex) giornalista presso Antenna Sud, fa giustamente notare: “Non ci crederete, ma nel giorno in cui si parla ancora del grande derby pugliese di tennis tra Flavia Pennetta e Roberta Vinci, ad Antenna Sud vanno controcorrente. Nel servizio del tg delle 14.13 di oggi, infatti, hanno commentato il match della Pennetta contro la cinese Peng, che si è però giocato… nel 2011. Cose da matti. Vedere per credere. E poi c’è qualcuno che parla pure di invidia. Ma per piacere. Imparate il mestiere prima di improvvisarvi giornalisti”. Parliamo di questa stessa Antenna Sud, non di una qualunque. Una svista che fa sorridere e riflettere.

Nel frattempo, a far ulteriormente pensare sull’importanza delle parole e sulle qualità minime che il Giornalismo dovrebbe avere (mi si perdoni la personificazione teneramente idealista del mestiere), un altro evento. Un fatto di cronaca che ha drammaticamente (ri)svegliato l’opinione pubblica, tra cittadini e professionisti seri e arrotini delle parole: “Una psichiatra in servizio presso il Sim (servizio di igiene mentale) di Bari – si legge su Ansa Puglia – è stata uccisa con una coltellata all’addome. La polizia ha già fermato il presunto assassino. Si tratta di un uomo di 44 anni che era in cura presso la struttura. L’omicidio è avvenuto nei locali del Sim, nel quartiere Libertà. A quanto si è appreso, l’uomo è stato fermato da agenti della squadra volanti subito dopo l’omicidio. La vittima, Paola Labriola, aveva 53 anni”.

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La notizia, come è facile immaginare, ha scatenato un dibattito molto serio e non mi soffermerò sulla tempestività di una parte della classe politica locale e nazionale nell’analizzare la mancanza di sicurezza sul posto di lavoro sociale (e di qualsiasi altro genere). Preferisco non comprare alcun biglietto per la Fiera delle dichiarazioni scontate. Ciò che ha catturato la mia attenzione, invece, da giovane ed aspirante giornalista, è stato il modo ed il metodo con i quali le diverse testate giornalistiche hanno pensato di affrontare l’argomento. Quello che un tempo sarebbe dovuto essere un momento d’apprendimento per capire un dramma e cercare di comprendere come restituirne i fatti, quelli reali, con la giusta dignità ed empatia che la famiglia della vittima e tutti i lettori meriterebbero, si è trasformato in una sfilata di sciacalli. Sciacalli (tra)vestiti bene sia chiaro, pronti ad intervistare il conoscente dell’amico dell’amica della vittima, con un blocchetto per gli appunti non troppo usato fra le mani, la spia della telecamera sempre accesa e la penna costantemente in modalità patetica. Scorrendo fra i canali, il pomeriggio catodico di alcune reti è un chiaro esempio di questo modo di far giornalismo. Una scuola che, a quanto pare, alcuni giornali sul web e cartacei stanno orgogliosamente seguendo.

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La morte in diretta” di Bertrand Tavernier, lo ricordate? Il film, tratto dal romanzo “The Continuous Katherine Mortenhoe” dell’inglese David G. Compton, narrava la storia di Katherine Mortenhoe, scrittrice di successo e malata terminale: l’emittente televisiva CNA le offre un contratto per avere l’esclusiva sui suoi ultimi giorni, che verranno trasmessi in un programma televisivo chiamato “La morte in diretta”. Un film del 1980, che oggi chiameremmo in gergo “distopico“, ma che di distopico verrebbe da pensare non abbia nulla. Cosa c’è di diverso dalla attuale realtà mediatica? Poco, nulla. La realtà mediatica ci spiega la realtà, ormai. Non più il contrario. L’opinione pubblica così, in men che non si dica, è il nuovo giudice al quale appellarsi per qualsivoglia forma di assoluzione: la lezione di Silvio Berlusconi è sempiverde.

Il metodo della televisione commerciale ha catturato anche la televisione e la stampa storicamente considerate nobili ed autentiche: il mostro e la vittima vanno sbattuti in prima pagina, meglio ancora se accompagnati da fotografie di parenti scossi e in lacrime. L’audience, i punti di share, l’indice di gradimento, le pressioni dei finanziatori, il numero di visite, i click ad ogni costo. Scriveva Indro Montanelli, in risposta ad una lettrice del suo amatissimo “Giornale”: “I lettori, cara signora, mi chiedono, sì, l’informazione; ma mi chiedono anche la decenza. Quando morì Pasolini nel modo che è ormai accertato, noi non riferimmo tutti i particolari che pure, avendo letto il referto della polizia, conoscevamo perfettamente; ci limitammo a lasciarli capire. Quelli che godono a frugare nel pattume e a rimestare nel sordido non sono lettori del “Giornale”, e noi non teniamo affatto che lo diventino. Quanto ai giornalisti che si dedicano a questi esercizi, essi dicono, lo so, di farlo in nome della “oggettività e completezza dell’informazione”. Ma, cara signora, queste sono formule che possono fare effetto solo sugl’imbecilli”.

Emilio Rossi, il primo direttore del Tg1, in un’intervista ad Andrea Fagioli su ToscanaOggi.it: “Il numero stesso di edizioni dei telegiornali e dei radiogiornali, il numero di pagine nella foliazione dei giornali è di per sé una tentazione verso l’espansione illimitata delle parole, delle induzioni, dei sospetti e così via. Indubbiamente ci deve essere una differenza tra televisione e stampa a livello nazionale e a livello locale. Ad esempio, il delitto passionale o casi del genere non possono non trovare spazio a livello locale, ma mi sembra molto meno giustificato che lo trovino nei telegiornali nazionali dove la presenza di cronaca nera determina una banalizzazione del male, una assuefazione che non fa bene a nessuno, sia nel considerare un evento meno grave di quanto non la sia realmente, che nel dare l’impressione che le cose ormai vanno così e andranno sempre peggio e che in fondo bisogna farci i conti con una certa indulgenza di principio. Altra cosa sarebbe riuscire a leggere la cronaca nera, che è cronaca di situazioni estreme, non dico con sguardo leggero o minimizzatore, ma come presa di coscienza del male che c’è da che mondo è mondo e della possibilità che abbiamo di distinguere il bene dal male, di adoperare quando si può la compassione o la cicatrizzazione di certe ferite”.

Mi chiedo (e vi chiedo), allora, perché accanirsi sui dettagli del sorriso di Yara Gambirasio e Sarah Scazzi nei mesi addietro ed oggi dedicare una intera gallery fotografica al sorriso di Paola Labriola, la dottoressa tragicamente uccisa a Bari? O, peggio ancora, pubblicare le fotografie del trasporto del corpo in una bara? Nel filmare e riportare ossessivamente il dolore dei parenti e dei colleghi io non scorgo, probabilmente mia miopia culturale, alcuna forma di notizia. Riconosco nitidamente i dettagli di un vampirismo mediatico e l’insegnamento di una pornografia emotiva che mi rifiuto di accettare e che spero, mi si perdoni la nuovamente giovanile speranza, di non fare mai mia.

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