Out among the EnglishVita di Zuckerman – Ritratto confuso di Philip Roth

{Su Blow Up di luglio/agosto 2013 è uscita questa mia breve monografia di Philip Roth, in cui la vita dello scrittore si confonde con quella del personaggio e ad essa si fonde come se fossero una ...

{Su Blow Up di luglio/agosto 2013 è uscita questa mia breve monografia di Philip Roth, in cui la vita dello scrittore si confonde con quella del personaggio e ad essa si fonde come se fossero una cosa sola, all’interno di una più ampia scritta, oltre a me, da Stefano Lecchini, Fabio Donalisio e Roberto Curti}

«Noi non esistiamo, o esistiamo per poco» è un’affermazione al limite del paradossale per quanto riguarda la maggior parte delle vite. Non per questa, che scorre nell’ombra sottile tra la realtà e la finzione, che è vissuta dal creatore quanto dai suoi personaggi e spesso si confonde, fino a perdere i confini di Roth e mescolarli con quelli di Zuckerman, Portnoy, Dixon. Sempre sul filo della confessione, ma senza mai sbottonarsi, tanto che tracciarne un ritratto senza cadere nelle trappole dell’invenzione diventa difficile, quasi impossibile.

Di certo si sa che Philip Roth è nato a Newark – e dove, se no? – nel 1933, lo stesso si dica per Nathan Zuckerman, anche se compare al mondo solo nel 1974. Come Zuckerman, Roth è ebreo, e non ne ha mai fatto mistero, anzi pare aver coniato quell’ironia tagliente così tipica, quella disillusione dissacrante, quella infinita nostalgia che si allaccia a un passato sconosciuto e presente. L’ebraismo di Roth è filtrato, come per tanti della sua generazione, dalla tradizione familiare, ma mescolato a una propria spiritualità che non ha nulla a che vedere con i precetti religiosi e che sembra aver perso, attraverso le migrazioni, le scorie del culto, per restare come un modo di vivere, di parlare, di muoversi. Zuckerman conosce i confini del Popolo Eletto, Roth di rado si esprime in proposito. La religione è qualcosa che colloca i personaggi in base alle loro origini, che permette di definire propriamente quell’ammasso di umanità che è l’America degli anni quaranta, in cui si muove il Roth adolescente, e che diventerà la matrice per tutti i suoi scritti, in coppia con una satira talgliente nei confronti della società in cui vive. Da Goodbye, Columbus – il racconto, del 1959, che dà il titolo alla prima raccolta – a quell’unica, breve, autobiografia che dichiaratamente si pone di parlare de I fatti.

La Weequahic High School, la Bucknell, l’università di Chicago. Ogni istituto è un sottotesto: gli anni dell’insegnamento e gli anni della scrittura, gli anni dell’apprendimento e gli anni della divulgazione, tutto è allo stesso tempo vero e falso, ben radicato e tangibile della provincia del New Jersey e completamente inverosimile. Ecco, se c’è un punto saldo, nella vita arrancante di Philip Roth, è proprio quel periodo della formazione che affiora in ogni scritto, attraverso riferimenti coltissimi e sottili giochi di rimando. Così fondamentale da rappresentare il solo prototipo di ricordo rintracciabile. Non c’è passato che non venga contenuto dalle pareti di un edificio scolastico, tra le scarpe college e le gonne a coste delle ragazze, i trofei di football e di baseball, e quegli atleti mitici, belli e intelligenti che un bravo lettore immaginerebbe biondi e alti, come lo svedese di Pastorale americana. Finché Roth nutre i ricordi, Zuckerman ci mette i sentimenti e ne individua la decadenza. Lo scrittore ha insegnato, prima di decidere di dedicarsi ai suoi personaggi a tempo pieno, quasi come se si trattasse di un doveroso rito di passaggio, tra il suo passato di non-scrittura e il suo futuro di scrittura-ininterrotta. Quasi fosse un commiato, necessario a staccarsi per sempre dal se stesso che verrà raccontato e che, non a caso, guarda agli anni della scuola.

La confusione tra l’autore e i personaggi, che finisce per essere la caratteristica determinante della scrittura di Roth, sembra cominciare veramente nel 1969, con quella meraviglia di ambiguità che è il Lamento di Portnoy. Roth si guarda da fuori e apre i rubinetti di una confessione che durerà quarantatré anni e avrà tutte le caratteristiche di quel monologo in apnea in cui Portnoy sgrana il rosario delle sue debolezze e spalanca le porte del suo ego, che gli varrà un successo internazionale tanto conclamato quanto difficile da digerire. Portnoy – come poi Zuckerman – racconta quello che Roth non può ammettere.

Sono almeno tre le correnti trasversali che spezzano il vortice di mescolanza che amalgama la vita di Roth, lo scrittore, con quella di Zuckerman, il personaggio. La prima è la morte di Margaret Martinson – sua prima moglie, sposata nel 1959 – qualche anno dopo il divorzio, in un incidente d’auto. La fermezza d’animo e l’ironia, da quel momento integrano il senso di colpa – sentimento che si avvicina più alla morale cristiana che a quella ebraica, dalla quale ci si aspetterebbe, in questo caso, un vittimismo diffuso – una sorta di sindrome dell’abbandono al contrario che porta Roth a trasferire anche questo ricordo dentro ai suoi scritti, trasformandolo in un’ambigua porzione di invenzione. Margaret diventa un personaggio, Philip già lo era, e accoglie le confessioni di Zuckerman, rovesciandogli addosso la rabbia che non ha potuto in vita.

La seconda corrente si confonde con la terza, e con tutto l’ormai massiccio bagaglio di produzione letteraria che lo scrittore si porta dietro. Siamo nei primi anni ’90, un ciclo si è chiuso, Zuckerman è relegato al ruolo di osservatore e Roth è già universalmente riconosciuto come un’icona della cultura americana – sono passati Lo scrittore fantasma, Zuckerman scatenato, La controvita, una serie di nomination al National Book Award, verranno due PEN/Faulkner, nel 1994 per Operazione Shylock e nel 2001 per La macchia umana, qualche nomination e un Pulitzer per Pastorale americana nel 1998, diverse voci di un possibile Nobel – quando tra le pagine di Operazione Shylock compare per la prima volta il riferimento a un terribile esaurimento nervoso, che affiorerà di nuovo nelle opere a venire, come un un leviatano degli abissi sulla superficie agitata della scrittura, confondendosi con la schiuma dei cavalloni e le assi dei relitti. È l’ombra di un violento schock post operatorio che ha condotto tanto Roth quanto Zuckerman, a un periodo di insonnia e nervosismo, capace di indebolire ancora di più quella che si è ormai rivelata essere una scorza fragile e sensibile, fino a scoprire pericolosamente lo scrittore al di sotto della fantasia. A questo si deve aggiungere il secondo divorzio, da Claire Bloom, che nel 1996 pubblica un’autobiografia dissacrante nei confronti dell’ex marito, ripescando quell’inaffidabilità e quel terrore che hanno caratterizzato il periodo dell’esaurimento. Anche Claire diventerà un personaggio – in Ho sposato un comunista – ma senza il piglio ironico e arrogante dei primi anni. Da qui in poi ogni scritto andrà a pescare più in là nel passato, alla ricerca di quellla primordiale questione irrisolta che è il tormento di una vita, prima preso di petto e poi assunto come dato di fatto, ma senza mai la volontà di affrontarlo per davvero. L’atto scaramantico di chi è abituato a esorcizzare la propria esistenza infilandola nei romanzi, ma che ormai è stanco e sfibrato, e vorrebbe solo riposare.

Nel 2012, Philp Roth annuncia che non scriverà più, Zuckerman tace da tempo e «i giorni scorrono, come è giusto che sia».

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