Jacques Lacan ha posto il problema del linguaggio come telaio dell’inconscio, o meglio, ha raccolto in teoria la matassa spinosa di quel che si intende per trauma derivante dalla nascita e dallo scontro con un linguaggio. Su questo stesso principio, per cui sempre il linguaggio coincide con l’inizio della civiltà e i suoi progressivi rovesciamenti in menzogna, si fondano i testi sacri e le modellazioni dogmatiche del concetto di creazione. Dalla menzogna alla distorsione della verità, dal ripiegamento del vero al peccato originale, dall’errore umano allo spargimento di sangue e orrore. Una catena interminabile che provoca e comporta responsabilità primigenie e perenni, dove l’incipit della lingua sta a dimostrare come tutto abbia inizio da una lettera e come alle spalle degli alfabeti si nascondano il nulla e il tutto.
Antonio Latella, regista sempre all’erta di visioni che dalla strada maestra sanno caricarsi il peso di controversie e interpolazioni coraggiose, attraversa il discorso del male con un’intenzione multiforme e un’immagine dichiarativa: spostare i baffetti dalla Gioconda e rimetterli a Hitler. Dunque, chiedersi come afferrare quella macchia d’olio che s’allarga e contamina l’insieme generico o piuttosto molto ordinario e, con parole di Hannah Arendt, “banale”, nel senso di un cancro o di un’autocrazia dannosa, di un eccesso di perdizione e stordimento del potere assoluto, di un abuso di coscienze e coazioni a ripetere.
Con A.H., drammaturgia che si apre con una lezione descrittiva sull’alfabeto ebraico e i suoi sentieri di saggezza per poi sfiorare appena Tolkien e l’affermazione del mito come essenza della lingua, Latella si avvale della partitura attorale davvero notevole di Francesco Manetti. Attraverso quella poliedricità decide di sperimentare declinazioni assurde, nel senso vero e proprio di afasie congenite alla distruzione umana evocata con guerra e armi, e da lì prosegue in corsa o rallentamento sfruttando oggetti con un pesante richiamo simbolico al deliquio e all’aberrazione. Manetti riduce allora a brandelli un foglio bianco su cui ha appena dipinto la seconda lettera ebraica bet e poi si spalma sul capo glabro della Nutella, simulando la chioma immobile hitleriana e subito scendendo a dipingere con la stessa materia sporca i baffi icona di ogni deturpazione ideologica e sociale.
Sono tempi scenici chiusi dentro lo strappo fisico e un linguaggio che non articola, ma emette indistintamente, la smania mimica dell’uomo-bestia e della sua selezione coercitiva e inevitabile. Adolf Hitler come catena di sequenze che si collocano in una visibilità emblematica, ma forse poco strutturale e a continuo rischio di sbavatura e appannamento, se non per la capacità metamorfica di Manetti che sorprende, ferisce e scalpita dritto negli occhi di un pubblico che vorrebbe davvero essere infilzato da una scrittura che invece langue un po’ dietro contributi audio e grida in loop.
L’iterazione è sì un congegno manifestamente teatrale, oltre che una chiave registica, ma la partitura verbale di invocazioni al Padre perché rechi la dose quotidiana di morte o l’emulazione di un gioco bellico si tramutano in silenzio che fa muovere gli arti di un manichino di legno. E allora il bisogno cambia e travalica l’inno nazionale tedesco o l’esaltazione ariana per concentrarsi nelle pose dello stesso manichino-attore prostrato, a capo chino di fronte al dominatore. Un Pinocchio resuscitato da una livella di legno che regge prima la schiena del burattino di legno per poi farsi naso di altra menzogna e bacchetta che spoglia l’attore ricordando all’uomo il male della progenie.
Resta un altro secchio per coprire la nudità di chi si è strappato tutto, un abito di carta come la tela su cui compariva la bet o i fiumi dei trattati filonazisti, le pagine dei miti storici lordi di sangue e dei figli abbandonati. Non più pittura o lingua che sputa vessazioni, non più videogiochi e aspirazioni totalitariste, ma borotalco dell’innocenza che va a coprire in un cono di luce il Cristo a faccia in giù. Una purificazione estetizzante o un miraggio di bellezza che per poco scende dalla croce tra gli stessi responsabili di una deportazione come tra le loro vittime.
Fino al 20 ottobre – Teatro Out Off – Milano
A. H.
drammaturgia: Federico Bellini e Antonio Latella
regia: Antonio Latella
con: Francesco Manetti
elementi scenici e costumi: Graziella Pepe
luci: Simone De Angelis
assistente alla regia: Francesca Giolivo
fonico: Giuseppe Stellato
production: Brunella Giolivo
management: Michele Mele
un ringraziamento speciale a: Manetti Italia
produzione: stabilemobile – compagnia Antonio Latella
in coproduzione con: Centrale Fies
in collaborazione con: KanterStrasse/Valdarno Culture