Adam Kabobo, il gahanese che l’11 maggio scorso uccise a colpi di piccone tre persone e ne ferì altre quattro, non è completamente pazzo. È affetto da schizofrenia, ma quando ha ucciso non era del tutto travolto dalla malattia. La capacità di intendere e volere, ancorché ridotta al minimo, c’era. Quindi per lui si apriranno probabilmente le porte del carcere. Se l’insanità mentale parziale venisse confermata potrebbe evitargli l’ergastolo ma non 30 anni di detenzione. Senza contare che, se la malattia mentale dovesse sussistere, scaduta la pena potrebbe comunque essere costretto da eventuali misure di sicurezza a trascorrere altri anni in stato di detenzione negli ospedali psichiatrici (il così detto “ergastolo bianco”).
Questa svolta nel caso Kabobo forse farà felici i tanti che fin da subito avevano invocato sbarre, punizioni esemplari e, perché no, esecuzione sommaria per il colpevole. Ma i fatti in realtà riaffermano la bontà (a essere onesti, spesso più teorica che reale) dell’ordinamento penale italiano. Sarebbe stato sbagliato decidere la pena sulla base della gravità del fatto – enorme – e sull’onda dell’emotività del momento. Sarebbe sbagliato adesso non tenere conto dell’esito della perizia psichiatrica. Una giustizia “giusta” ha le sue procedure (non si poteva prescindere dalla perizia), le sue garanzie (se Kabobo fosse stato dichiarato completamente incapace di intendere e volere non ci sarebbe stato scandalo nell’evitargli il carcere, essendo parzialmente incapace non c’è scandalo nel concedere le’attenuante relativa) e i suoi tempi (ora il processo durerà forse pochi anni prima di arrivare a sentenza definitiva).
Se di fronte ai casi di cronaca nera i mezzi di informazione dimostrassero un po’ più di consapevolezza (dall’inesistente emergenza stupri di qualche anno fa al “mostro” Misseri poi scopertosi vittima, dalle campagne anti-rom con disordini annessi alla caccia allo straniero per la strage di Erba) eviterebbero di indirizzare l’opinione pubblica – talvolta prendendo delle cantonate pazzesche e spesso per secondi fini – a volere un certo esito processuale piuttosto che un altro, quando in uno Stato di diritto tale compito spetta al potere giudiziario.