’O pernacchioSiamo un popolo insofferente, da fermata del pullman

In linea di principio, pensare è una cosa naturale. Non devi impegnarti per pensare. Non devi avere licenze, permessi, salvacondotta. Pensi quando e come vuoi; pensi a quello che vuoi pensare, e no...

In linea di principio, pensare è una cosa naturale. Non devi impegnarti per pensare. Non devi avere licenze, permessi, salvacondotta. Pensi quando e come vuoi; pensi a quello che vuoi pensare, e non hai nessun problema ad essere onesto, se non con te stesso.
La gente pensa nei posti più diversi. C’è il pensatore da passeggiata, quello da letto; quello che si rinchiude nel gabinetto, senza averne veramente bisogno. E poi ci sono i pensatori da fermata del pullman. Quest’ultima categoria non è così comune come qualcuno, sbagliando, potrebbe pensare. Dipende innanzitutto dal paese, quindi dalla persona, dall’agenzia dei trasporti e dalla propensione di queste due cose, persona e agenzia, di venirsi incontro: la prima ad aspettare, la seconda a farsi aspettare.

Io sono uno di quelli che, per forza di cose, pensa sotto la fermata del pullman. Penso alle cose più diverse, a seconda del tempo, delle stagioni, di chi mi sta attorno e soprattutto di dove sto andando. La musica, perché c’è sempre della musica, fa solo da sottofondo. Non mi ruba i pensieri. Non mi intorpidisce la mente. Non mi piace quel tipo di musica.
Il più delle volte, notavo qualche giorno fa, sotto la fermata del pullman ho sempre lo stesso pensiero: sono incazzato. Incazzato nero. Incazzato come una bestia. I problemi a casa sono quelli che sono, ma non è per loro che mi incazzo. È per un’infinità di cose che, messe tutte insieme, una dopo l’altra, farebbero incazzare chiunque. Pure, come diciamo a Napoli, il Padreterno: tutto attaccato, un unico suono.

Insofferenza.
Questa è la prima, delle tante cose, che mi fanno veramente incazzare. L’insofferenza di chi viaggia, di chi aspetta, di chi subisce e di chi, paradossalmente, infligge; l’insofferenza degli uomini, delle donne e dei bambini. Perché pure i bambini, oggi, sono insofferenti. Sono pochi quelli che ancora si divertono a far sfrecciare le macchinine in verticale contro i cartelloni pubblicitari, sotto la fermata del pullman. E sono ancora di meno quelli che chiedono perché e per come alle loro mamme e ai loro papà.
Subiamo o facciamo subire: non fa nessuna differenza perché non c’è una vera anima nel carnefice, né tantomeno nella vittima.
Il pullman non passa: e che fa? Hanno appena rubato la borsa alla signora qui, a due passi da dove sto aspettando il pullman: sono cose che succedono. Piove e non ho l’ombrello: ma dove ho la testa in questi giorni? La chiamo, non mi risponde: avrà da fare, pazienza.

Dall’insofferenza arriviamo all’assenza di passione. Faccio perché devo, non perché voglio. Esco, mi hanno detto di uscire; non esco per me stesso. Vado sotto casa sua perché così si fa. Sentire è diventato un verbo vuoto, facile, a cui ci appigliamo con una costanza assurda, disdicevole. E sempre per lo stesso motivo: perché siamo insofferenti. Non sappiamo più cosa è cosa. Pare assurdo, riduttivo, tremendamente tragico, ma è così.
Senza la passione, manca – per paradossale che sia – la ragione. Uno non ragiona se prima (o dopo) non ha sragionato. Uno, a certe cose come l’amore, l’amicizia, la fedeltà, l’onestà, non ci pensa se prima, agendo d’istinto, ha sbagliato.

Aspettiamo costantemente qualcosa – stavolta, nel mio caso, il pullman – e non riusciamo a capire – non riusciamo a vedere – che camminare, andare a piedi dal punto A, dove ci troviamo, al punto B, dove vorremmo trovarci, è la soluzione migliore, preferibile: più immediata. E questo sempre per lo stesso motivo: siamo insofferenti, non abbiamo più passione, non sentiamo. Tutto quello che ci succede attorno avviene in una sorta di bidimensionalità: manca cioè del lato terzo della concretezza.

Ora decidete voi cosa o chi può rientrare in questo ragionamento. Io, intanto, aspetto il pullman.

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