Il recente messaggio alle Camere da parte del capo dello Stato sull’emergenza del sovraffollamento delle carceri il detonatore che ha fatto deflagrare un ordigno. Il suggerimento di “rimedi straordinari”, tra i quali anche amnistia e indulto, la causa di preclusioni e indisponibilità. Come quella espressa ruvidamente da Renzi, ma anche dai 5 Stelle. Eppure in quel testo Napolitano faceva “soltanto” il calcolo dei rischi, dei danni, di quanto tempo ci rimane per correre ai ripari. Pronunciava un avvertimento, per segnalare che la sentenza dell’Ue del 28 maggio 2013 ha messo l’Italia in mora e con la concreta prospettiva di una nuova condanna prima che passi un anno, se non s’interverrà presto.
Potrebbe partire da questa circostanza la lettura di “Volti e maschere della pena. Opg e carcere duro, muri della pena e giustizia riparativa”, la raccolta di interventi a cura di Franco Corleone e Andrea Puggiotto, su temi che spaziano ben aldilà del sovraffollamento carcerario (Ediesse, pp. 348, euro 16,00). Il riferimento iniziale, da parte dei due curatori del volume, alla loro sollecitazione al Presidente della Repubblica perché intervenisse sulla questione, per quanto in suo potere, ancora pieno di speranza. A quel che si è potuto constatare delusa. Forse di più, tradita, da un parterre politico in gran parte inadeguato. Incapace di uno sguardo libero oltre le proprie particolarità del presente. Sostanzialmente disinteressato a temi che risultano estremamente sensibili e quindi pericolosi. Proprio per questo viaggiare tra le parti e poi tra i diversi interventi, quindi tra le pagine che li costituiscono si rivela un viaggio illuminante. Anche se faticoso. E non per i testi, naturalmente. Ma per quel che raccontano, spesso ricorrendo ad elementi incontrovertibili. Le cifre, i numeri. Tutti disgraziatamente negativi per un Paese che si dichiara civile. Partendo da quello relativo al tasso di sovraffollamento, passando per quello dei decessi, quindi a quello delle nuove infrastrutture carcerarie e a quello dell’aumento della capienza di quelle esistenti. Il cahier de doleance, lunghissimo. Chiarificatore dei molti mali, in molti casi sclerotizzati che affliggono il nostro sistema. Istituti carcerari insufficienti ad ospitare tutte le Persone in stato di detenzione, nel rispetto degli standard riconosciuti di vivibilità. Ospedali psichiatrici giudiziari, a lungo luoghi di reclusione e per questo da chiudere. Ma sostituendoli con strutture che sappiano rispondere alle esigenze dei malati. Inoltrandosi nei diversi contributi può accadere di provare la sensazione di trovarsi a fare i conti con una realtà che non si conosceva, se non superficialmente. Un mondo quasi parallelo fatto di atrocità inimmaginabili, di dignità negate, di morte coltivata giorno dopo giorno. Senza grande differenza per lo spazio nel quale ciò si verifica. Carcere o Ospedale psichiatrico giudiziario. Senza alcuna attenzione per il sesso o l’età. Donne e Uomini, Bambini e Ragazzi, Adulti e Anziani. Lì “dentro” le diversità sono annullate. Insieme alle Persone. Il volume, come ogni testo, offre diversi strumenti per essere decriptato, per essere compreso aldilà delle suddivisioni. Ben oltre i temi discussi. Saldi fili rossi che attraversano il testo da un capo all’altro, legando insieme questioni apparentemente non in relazione tra loro. Le parole, alcune espressioni, prima di tutto. Intese per quel che sono, alle volte colpevolmente fraintese. Come distacco, spostamento, controllo sociale, colpa, status, vendetta, castigo sono termini riferiti alla pena e alle ragioni che l’hanno determinata. Come matti, manicomi, ergastolo nascosto, ergastolo bianco riguardanti i cosiddetti malati psichici. Ancora, come tortura democratica, bene intrinseco della persona, carcere duro, isolamento, a proposito del carcere duro dell’art.41-bis. Accanto alle parole non possono non esserci le leggi, le determinazioni. Quelle del presente, certo. Ma anche quelle del recente passato. Come la condanna pronunciata dalla Sezione II della Corte EDU, l’8 gennaio 2013, nel caso Torregiani e altri, in ragione delle condizioni inumane e degradanti in cui sono costretti i detenuti in Italia. Come l’art. 2 della legge 23 dicembre 2009, n. 191, il cosiddetto Piano carceri. Come la legge 26 luglio 1975, n. 354, la riforma dell’ordinamento penitenziari. Come l’art. 43 del decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1, poi convertito in legge 24 marzo 2012 n. 27 rubricato “Project financing per la realizzazione di infrastrutture carcerarie”. Come la legge 13 maggio 1978 n. 180 relativa ad “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, nota come Legge Basaglia. Come la legge 9 febbraio 2012 n. 9 nella quale si stabilisce la dead line per gli attuali “manicomi giudiziari”. Come l’art. 41 bis della legge di ordinamento penitenziario. In realtà, come sarebbe più che logico attendersi, la giurisprudenza appare ricca. Anche se ancora pericolosamente, nella sua complessità, a sanzionare. Senza occuparsi quasi mai di redimere.
Nella miriade di volti e maschere con sapienza chirurgica esplorate nel volume, emergono con prepotenza, accanto alle Persone e alle loro pene, i luoghi nei quali si consumano a vicenda. Le carceri, insomma. Come quelle di Sollicciano, a Firenze, progettate e realizzate dal gruppo Mariotti, Inghirami, Campani, proprio negli anni in cui è approvata la nuova legge penitenziaria. Oppure come quelle di Badu ‘e Carros, a Nuoro e di Cosenza, progettate da Mario Ridolfi tra il 1953 e il 1964. Esempi virtuosi, perché per certi versi anticipatori di innovazioni proposte dalle riforme ma mai completamente attuate. Esempi di quanto anche l’architettura carceraria, mutando i suoi iniziali punti di riferimento, potrebbe contribuire al miglioramento delle città. Ma prima di tutto degli spazi di reclusione. Ma insieme a quegli edifici pensati “bene” ve ne sono molti, troppi, “malati”. Così come lo sono i sei OPG ancora operativi. I racconti di chi ci è stato, di quanti ne hanno potuto verificare la “sconcezza”, li derubrica a recinti. A muri dell’impedimento.
Metabolizzata l’inefficacia dell’intervento del Presidente Napolitano, verificata l’inerzia della politica che non vede, non sente e (qualche volta) non parla, secondo l’espressione di Stefano Caracciolo, varrebbe la pena pensare che forse meritiamo un po’ più di quel che abbiamo. Tutti. Che la Costituzione, proprio perché è “il sostrato dell’Unità nazionale”, costituisce un patto “rigido, ma non immutabile”. L’importante, come sempre, è la serietà.
25 Ottobre 2013